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14 maggio 2007

Ligabue chiude la Fiera del libro 2007


Lunedì 14 maggio, chiusura della Fiera del Libro, sala gialla gremita. Si spengono le luci e alla prima nota di Certe notti, partita dal video proiettato in sala, si crea un effetto concerto: ragazzi e ragazze urlano e salgono sulle sedie, fanno ondeggiare le macchinette fotografiche come fossero accendini. Un attimo di calma, tutti si risiedono, ma all’ingresso di Ligabue di nuovo standing ovation: stavolta tutta la sala si alza in piedi.

La prima parte dell’incontro è un dialogo tra Vincenzo Mollica e Ligabue, una sorta di intervista-presentazione del cofanetto Parole e canzoni edito da Einaudi, il tredicesimo di una serie iniziata con le musiche e le parole di De André. Una novità anche per Ligabue, che mai prima d’ora aveva pubblicato i testi delle sue canzoni: «È importante considerare la canzone come un tutt’uno – spiega il cantante emiliano – ricordo Bob Dylan che sceglieva quasi sempre le parole per il suono che avevano. Vedere le parole senza la musica mi ha spiazzato, ma mi ha anche fatto riscoprire, in retrospettiva, il mio lavoro: nei primi quattro, cinque anni ho sempre raccontato me stesso attraverso le storie di altri, al massimo usavo un cauto “noi”. Successivamente, invece, ho iniziato ad utilizzare anche la prima persona». E in questa opera fatta per Einaudi Ligabue ha deciso di parlare anche del suo mestiere composito di cantante, regista e scrittore.

Mollica ricorda a Ligabue che Vincenzo Cerami lo ha definito un “gaucho”: «Mi ha definito anche cantautore della solitudine – risponde Ligabue – ma io non parlo di solitudine come valore assoluto». Il cantante emiliano parla poi della propria “incoscienza” e la definisce un bene prezioso per riuscire a fare un lavoro come il suo. Precisa anche quanto sia importante non trasferirla negli altri: «Parlo dell’incoscienza nei confronti delle aspettative – spiega – del futuro. Io in realtà sono timido e mi faccio tenerezza, quella che vedete sul palco è una finta sfacciataggine». Cominciano poi le domande del pubblico, alle quali Ligabue ha concesso con gentilezza e disponibilità quasi un’ora.

Che valore hanno per te le canzoni?
«Sono un valore inestimabile. Ogni brano poi ha un effetto diverso da persona a persona. Poche cose esaltano tanto quanto una canzone che ad un certo momento ti prende e non ti lascia più. Ci sono molti pezzi che potrei ascoltare anche mille volte senza stancarmi, tra queste posso citarvi Where the streets have no name degli U2, Born to run di Springsteen e Like a rolling stone di Dylan».

Come sei finito sul palco?
«È stata una scommessa con Claudio Maioli, il mio manager. Un giorno mi ha detto che non sarei mai stato capace di fare un concerto rock e l’ho presa come una sfida. Il primo lo feci nel febbraio dell’87 e non ho mai capito perché, se con tre persone sono tanto timido da non saper parlare, davanti alla folla invece posso fare tutto quello che sapete».

Non ti viene mai voglia di tornare allo stile dei tuoi primi album?
«L’incoscienza quando la perdi la perdi, sono ancora incosciente su altro, ma non nello scrivere canzoni. Oggi devo misurarmi con il senso del dovere, con quello che credo che gli altri vogliano da me. Umanamente poi sono diverso: anche questo implica il raccontare una cosa piuttosto che un’altra».

Nel 1993 hai scritto A che ora è la fine del mondo?: tredici anni dopo, a che ora è?
«Quella canzone è forse più attuale oggi. In realtà volevo solo fare dell’ironia sulla TV: mi chiedevo cosa succederebbe se si sapesse con un anticipo di 48 ore che il mondo finirà. Si farebbe davvero quello che altrimenti non si farebbe mai, oppure si guarderebbe la diretta di Emilio Fede?».

Convivendo con una disabilità mi riconosco molto ne Il giorno di dolore che uno ha. Tu in quale canzone ti riconosci di più?
«Il giorno di dolore che uno ha l’ho scritta dopo la “sentenza di morte” annunciata dai medici ad una persona a me molto cara, mi emoziona ricordarlo e sono felice che questo testo possa in qualche modo “sollevare” anche qualcun altro. Per quanto mi riguarda non c’è una canzone in cui mi riconosco di più. Dentro ad ogni album ci stanno undici brani che sono la selezione di almeno trenta canzoni. Anche quelle che non passano mai alla radio hanno la capacità di rappresentarmi, perché un artista quando crea fa sempre un autoritratto, dà forma ad un bisogno espressivo. Però posso dirvi che c’è una canzone che per me è come un mantra: Leggero».

Quale canzone invece ritieni sia sbagliata?
«Una canzone che mi ha fatto soffrire molto, nel senso che credo sia una canzone “sbagliata” anche se poi ha avuto un successo inaspettato, è stata Una vita da mediano».

Il tuo primo concerto fuori dall’Emilia, come l’hai vissuto?
«È stato cruciale. Una festa della birra: salsiccia e birra 10.000 lire, la prima esibizione che non facevo davanti a degli amici. La tenda era piena di persone che non conoscevo ma che sapevano le mie canzoni meglio di me, mi fecero capire che fare concerti comporta anche responsabilità».

Quali sono i tuoi punti di arrivo?
«Non me ne sono mai posti. Ho fatto anche un film, che non ci sta in un cantante rock. È capitato, in realtà non avevo spinto in quella direzione. Ho scelto di raccontare quella storia perché se non l’avessi fatto mi sarei sentito un coglione per il resto della mia vita. Credo che non ci si possa dare dei punti di arrivo, ma se volete sapere il prossimo obiettivo posso dirvi che in questo periodo mi sto dedicando moltissimo alla musica, mi sto proprio impegnando molto».

Restando nel tema della fiera, quel libro metteresti al confino e quale invece porteresti al confine con te?
«Ci sono vari libri che non mi sono piaciuti, ma non mi permetterei di impedire che altri li leggessero. Uno dei libri che mi sono piaciuti di più è stato invece Sulla strada di Kerouac».

Come fai ad essere così umile?
«Non posso dirlo io. Ma mi sento fortunato nel poter fare qualcosa che mi fa stare bene e che fa stare bene qualcun altro».

Sai resistere alla tentazione di scaricare canzoni da internet?
«Sì».

Che differenza c’è tra lo scrivere canzoni e lo scrivere poesie?
«Le parole che usi in una canzone devono essere capaci di suonare all’interno di una struttura che a sua volta deve suonare. Ancora di più nel pop-rock questo è molto importante. La canzone nasce come riduzione del melodramma, perciò se non è chiara è fallita. Una poesia invece è il contrario: se si capisce immediatamente forse è sbagliata».

Ho messo via, quando l’hai scritta?
«Poco dopo i 30, appena sposato, da poco aveva cominciato a fare il cantante per mestiere e mi sono trovato a dover fare i conti col crescere. Mi scontro sempre col desiderio di restare piccolo, ma il quotidiano ti impone di fare i conti col diventare adulto: Ho messo via parla di questo. Ho perso le parole invece è stata scritta apposta per Radiofreccia, perché non c’è altra frase che possa esprimere la morte per overdose, di cocaina e d’amore, di un ventenne».

È più facile esprimersi attraverso le canzoni o attraverso i film?
«Fare un film è mentalmente più faticoso. Non avevo mai frequentato dei set e per capire il linguaggio dei film ho dovuto “smontare” tutti quelli che amavo di più per capirne la grammatica. La difficoltà di fare un film sta nel progettare l’emozione che poi dovrà essere riprodotta da altri. Poi dal punto psicologico non è stato facile per un cantante dirigere degli attori».

Si può dividere la vita artistica dalla vita privata?
«La mia realtà è fatta sia della vita pubblica che della vita privata, io ci vivo dentro, non vedo separazioni. Sta al singolo artista scegliere se accettarlo o no».

Cos’è per te la famiglia e che senso le dai?
«Credo sia un'istituzione - anche se è una parola bruttissima - necessaria e che auguro a tutti. Io ne ho avuta una, l’ho sciolta e poi ne ho creata un’altra. Ho visto anche gli effetti della mia famiglia su di me, credo di essere uno dei pochi cantanti rock che non hanno genitori alcolizzati: i miei sono stati fantastici, forse anche per questo sono fuori schema rocker».

Sei sempre stato soddisfatto della tua vita?
«La vita è senza dubbio il più bel dono che abbiamo ricevuto. Non bisogna sprecarla ed è importante che ognuno sappia ascoltare il bisogno di fare che ha dentro di sé».

[domanda di un bambino] Come faccio a cantare a scuola se mi vergogno?
«Chiudi gli occhi, immagina di essere in uno stadio e vai».

10 maggio 2007

Spingendo la notte più in là

Se si scrive una storia personale non è facile essere obbiettivi. Ma se si è anche giornalisti, è un dovere esserlo? Secondo Mario Calabresi, che al Café letterario della Fiera del Libro di Torino ha presentato il suo libro Spingendo la notte più in là (edito da Mondadori), «in una storia personale non si può essere obiettivi, se lo si fosse non si potrebbe raccontarla. Esponendo il proprio punto di vista, però, è necessario restare aderenti alla realtà, bisogna asciugare il racconto ed essere il più semplice, il più chiaro, il più lineare e il più vero possibile. Bisogna restituire la freschezza del punto di vista. Il valore sta nel mostrare un'esperienza, perché il lettore possa farne tesoro».



“Show & tell”, mostra e racconta, è l'insegnamento della Columbia University. Anche Mario Calabresi ha voluto mostrare il percorso del dolore e come si può provare ad uscirne: «Mia madre – racconta Calabresi – aveva 25 anni quando mio padre è stato ucciso, e ha deciso di scommettere sulla vita, ha “spinto la notte più in là"».

Nello spiegare com’è nato il suo libro, Mario Calabresi, racconta che il bisogno privato si è incrociato con l’esigenza pubblica. Il dibattito nato dopo l’elezione di D’Elia,
è stato il fatto scatenante che ha fatto sorgere un'insofferenza crescente. La cosa particolare non è tanto che un ex-terrorista sia stato eletto in Parlamento («se è possibile per legge, è giusto», precisa Calabresi), ma il dibattito che ne è seguito: «Il morto ucciso da D'Elia è stato completamente assente da questo dibattito, gli interlocutori erano gli ex-terroristi e la politica. In Italia non ci si è fatti carico, ma si è messo da parte, non si sono fatti i conti con la violenza che ha fatto parte di una generazione. Nel dibattito politico si sono tagliate fuori le conseguenze dei gesti terroristi, è per questo che ho ritenuto che valesse la pena di raccontare, di mostrare».

«Non ho aspettato che fossero altri a scrivere – continua Calabresi – era il momento di mettere parte della mia vita in un'opera giornalistica. Nel libro racconto gli ultimi mesi di vita di mio padre e il periodo subito successivo». Secondo Calabresi la memoria, per non essere “burocratica”, deve raccontare la vita vera. Nelle scuole ad esempio si dovrebbero ricostruire i personaggi, farli tornare in vita attraverso racconti che non siano troppo lontani dai ragazzi. «Se “eroe” è qualcuno che fa il suo lavoro con passione fino in fondo – spiega Calabresi – allora sì, mio padre è stato un eroe, ma per il resto era un uomo normale, con tutti i pregi e i difetti di un uomo normale. Essere un eroe in questo senso è un obiettivo raggiungibile, bisognare umanizzare il testimone perché possa prender vita».

Il pubblico è emozionato, alcuni si commuovono, una giovane signora, incinta di tre mesi, chiede a Calabresi perché in TV e sui giornali c’è molto più spazio per i terroristi che per le loro vittime e i famigliari delle vittime: ڲIl motivo è molto banale – risponde Calabresi – le storie dei terroristi fanno titoli più intriganti, la loro storia continua, entrano ed escono dal carcere, c’è sempre qualcosa di nuovo da raccontare. E’ molto più difficile, invece, raccontare una vedova».

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