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27 novembre 2008

"Lasciami entrare"


''Vuoi essere la mia ragazza?''. ''Ma io non sono una ragazza''. ''Bè.. vuoi metterti con me si' o no?''. La storia di vampiri presentata al 26/o Torino Film Festival uscira' nelle sale il prossimo 9 gennaio, e' un horror melanconico ma senza drama finale. Lasciami entrare (Låt den rätte komma in, in svedese) e' firmato dal regista svedese Tomas Alfredson e racconta la storia di Eli, vampira dodicenne costretta a cambiare spesso casa con il padre, e di Oskar, dodici anni anche lui, che abita nell'ultima citta' in cui Eli si e' fermata. Eli non e' una bestia incontrollabile, ma prova sentimenti e si sente imprigionata in una condizione che non vorrebbe. Oskar e' un ragazzo fragile e ansioso, affascinato dalle storie macabre non ci mettera' molto a capire che tra Eli e le morti misteriose che avvengono da qualche tempo c'e' un rapporto, ma non per questo smettera' di volerle bene.

Nel film, che e' tratto dall'omonimo libro di John Ajvide Lindqvist (che della pellicola ha curato la sceneggiatura), viene rispettata la tradizione minima delle storie di vampiri: bruciano se esposti alla luce del sole, non hanno un sesso definito ma anche non possono entrare in una casa se non sono invitati. Quest'ultimo aspetto, che da' anche il titolo al film, e' per Lindqvist il lato morale piu' interessante di un vampiro. ''Lasciami entrare'', al di la' delle immagini sanguinose e a tratti violente, al di la' di una musica che ad un pubblico piu' sensibile permette il tempo di coprirsi gli occhi, narra la storia di due giovani adolescenti che decidono di volersi bene accettandosi cosi' come sono, aiutandosi a guardarsi sotto una luce diversa.

Lasciami entrare è distribuito in Italia da Bolero Film.

23 novembre 2008

Una staffetta contro la violenza


“Chi paga per i peccati dell’uomo?”. La domanda copre il ventre velato di una giovane donna stesa su un letto, le braccia aperte e le ginocchia fl esse come il Cristo in croce. E’ la campagna che l’associazione Telefono Donna pensava di affiggere negli spazi pubblicitari di Milano in occasione della giornata mondiale contro la violenza sulle donne, il prossimo 25 novembre, giorno in cui partirà anche la “Staffetta di donne contro la violenza sulle donne”: un’anfora che percorrerà in dodici mesi tutta l’Italia per dire basta alla violenza sessuale e al “femminicidio”, un reato preciso che avviene quando un uomo uccide una donna per sentirsi maschio. L’anfora partirà da Niscemi, dove il 30 aprile scorso tre minorenni uccisero Lorena Cultraro, 14 anni, temendo che fosse incinta di uno di loro, e si fermerà a Brescia dove, l’11 agosto del 2006, Hina Saleem, 22enne pachistana, fu uccisa dal padre per aver lasciato i costumi islamici accogliendo quelli occidentali.

Organizzata dall’Udi, l’Unione donne in Italia, la Staffetta toccherà il Piemonte nel 2009, a giugno, ma a Torino si parlerà della giornata contro la violenza sulle donne il 24 e il 25 novembre, due serate per riflettere sulle violenze fi siche, sessuali o psicologiche subite, maggiormente per mano del partner, da 14 milioni di donne in Italia (dati Istat, febbraio 2007).

Al teatro Vittoria di via Gramsci, lunedì 24, andrà in scena “Più di mille giovedì”, con Gisella Bein e la regia di Renzo Sicco e Lino Spadaro. E’ la storia delle Madres de Plaza de Mayo, le madri dei desaparecidos, i dissidenti scomparsi durante la dittatura militare in Argentina tra il 1976 e il 1983. Lo spettacolo è tratto da “Le irregolari” di Massimo Carlotto, che ne ha curato anche la riduzione scenica. Martedì 25, dalle 18 alle 20 al Caffè Basaglia si brinderà in onore della Staffetta, mentre alle 21 “Le nuvole teatro” di Gianni Afola porteranno in scena al Vittoria “Passi affrettati” di Dacia Maraini, che dopo lo spettacolo sarà in collegamento telefonico per dibattere con Angela Vitale Negrin, vice responsabile di Amnesty International per il Piemonte e la Valle d’Aosta e Simonetta Rho, giornalista del tgR Piemonte. Sarà presente l’assessore regionale alle pari opportunità, Giuliana Manica.

“Passi affrettati” è anche un libro edito da IanieriEdizioni, che si può leggere online su www.passiaffrettati.it ma che se acquistato contribuirà ad aiutare le donne che hanno subito violenza, perché la scrittrice ha deciso di devolvere per intero i suoi diritti letterari in loro favore.
Per entrambe le serate al teatro Vittoria l’ingresso è gratuito fino ad esaurimento posti, ma per “Passi affrettati” la prenotazione è obbligatoria: si può effettuare inviando una mail a passiaffrettati@meltinglab.it, telefonando al numero 392 9096329, o inviando un fax allo 011 8178123.

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L’anfora, testimone della Staffetta organizzata dall’Udi, ha due manici ed è pensata per venire portata da due donne: il loro “portarla insieme” sarà simbolo di relazione, solidarietà e vicinanza. Il passaggio dell’anfora ad altre due donne avverrà in ogni città pubblicamente.
L’anfora sarà anche un testimone che si arricchisce man mano che attraversa le regioni d’Italia, perché al suo passaggio le donne potranno infi larvi dentro biglietti, pensieri, immagini, denuncie. Alla staffetta è esclusa l’adesione di partiti e movimenti politici misti.

19 novembre 2008

Shalom, amici della scuola ebraica


Shalom. Pace. È bello sentirsi accolti con un saluto di pace. Nella comunità ebraica equivale a un semplice “ciao”, ma le origini di un saluto dicono molto di una comunità.
Tutti gli invitati alla festa a porte aperte per la neonata associazione ex-allievi ed amici della Scuola ebraica di Torino, che si è svolta il 12 novembre, hanno avuto il piacere di sentirsi accogliere così: con un sorriso e un saluto di pace (nell’immagine in alto il depliant della scuola).

Nella palestra di via Sant’Anselmo, vicino alla Sinagoga, la festa è letteralmente esplosa: bambini che correvano, saltavano e sfi davano Patrizia Saccà, campionessa paralimpica di tennistavolo ed ex-allieva della scuola. “Ci tenevamo molto alla sua presenza – dice Elisa Ferrio, neopresidente
dell’associazione – la scuola ebraica di Torino si impegna tutti i giorni per abbattere le barriere tra le persone, tutte le barriere”. La festa è stata anche occasione per inaugurare, appunto, i nuovi servoscala della scuola, ora pienamente accessibile ai disabili motori. “Nessuno viene lasciato indietro – ribadisce Elisa – sviluppare negli allievi lo spirito critico e il senso profondo della convivenza civile sono gli obbiettivi primari dell’istituto”.

Alla scuola ebraica, che comprende le scuole paritarie materna ed elementare Colonna e Finzi e la scuola media Artom, possono iscriversi tutti, non è necessario essere ebrei. Alla festa anche una coppia di mimi che, tra un sorriso e lo scontro con un vetro immaginario, hanno anche tentanto (invano) di andare in soccorso ai relatori che non riuscivano a farsi sentire, tanto era l’entusiasmo dei presenti di trovarsi e di ri-trovarsi insieme.

Gli iscritti all’associazione per ora sono un centinaio, ma su Facebook arrivano quasi a duecento:
“L’abbiamo formalmente costituita dal notaio il 29 ottobre – dice la presidente – e il gruppo dei soci fondatori rispecchia ciò che essa vorrebbe essere: un gruppo eterogeneo per età e per legame con la scuola, aperto a tutti e dove tutti si sentano i benvenuti”. Per le “due anime” dell’associazione si pensa a serate agrodolci con foto e ricordi dei tempi passati per gli ex allievi, a incontri per i genitori sulle droghe, la formazione, l’educazione. Tra le idee anche un lavoro di archivio per riscoprire i fondatori della scuola.

Per saperne di più sulla scuola ebraica si può visitare il sito www.scuola-torino-ebraica.it.

13 novembre 2008

News, come nasce una bufala


Davvero Sarah Palin non sapeva che l’Africa fosse un continente? Il Presidente del Consiglio, Silvio Berlusconi, si è sentito male rientrando dal G20, oppure no? Il convegno “Propaganda,
disinformazione e manipolazione dell’informazione”, a Torino il 7 novembre scorso, si è svolto troppo presto per poter prendere in considerazione anche questi interrogativi, forse pure marginali, ma di certo ha toccato i nodi fondamentali di un problema di oggi: la possibilità di “intossicare” la percezione della realtà attraverso la disinformazione o la manipolazione delle notizie.
Nell’Aula magna del Rettorato, in diretta streaming dal sito di Radio 110 e in diretta anche sull’isola Unito di Second Life, sono intervenuti Luigi Bonanate, Franca Roncarolo, Ugo Volli, Annamaria Testa, Gerard Bronner, Mimmo Càndito, Massimo Chiais e Alejandro Pizarroso Quintero.

Docente all’Università Bocconi di Milano e pubblicitaria, Annamaria Testa ha fatto notare come, negli ultimi anni, la propaganda abbia teso a fare proprie la retorica e i metodi della pubblicità, mentre Gerard Bronner, dell’Università March Bloch di Strasburgo, specialista nel campo delle credenze collettive e della cognizione sociale, ha fatto notare che sul piano cognitivo contemporaneo il vero non ha sempre la meglio sul falso.

Mimmo Càndito, per anni corrispondente di guerra per La Stampa e presidente italiano di Reporters sans frontières, ha sottolineato come le nuove tecnologie propongano non solo vantaggi, ma anche nuove forme di condizionamento che rendono estremamente diffi cile il ruolo dei professionisti dell’informazione. La demonizzazione del nemico, infi ne, è stato il tema dell’intervento di Massimo Chiais, docente, giornalista e organizzatore del convegno: «Il nemico è inevitabilmente crudele e sanguinario, è subdolo e spietato. Questa pratica retorica – spiega Chiais – ha una valenza duplice: da un lato spinge le popolazioni all’odio nei confronti dell’avversario da combattere, dall’altro fi delizza il popolo alla propria causa, nel nome dell’eterno scontro tra Bene e Male».

28 ottobre 2008

L'Onda e lo spettro del '68



Continuano le contestazioni studentesche a Roma, e non solo. Stamattina, apro il Corriere online e in apertura vedo questa foto




Mi dico: che citazione! In mente mi torna la famosa foto che divenne il simbolo del maggio francese nel 1968.
Prima sorrido, immaginando che il fotografo magari l'ha davvero cercata quella citazione, poi penso: è possibile che si debba sempre pensare al '68? E soprattutto, è mai possibile che per indicare rivoluzione e movimento ci si debba sempre rifare ai francesi? Non potrebbe esserci invece un che di originale, di unico, anche in quello che accade nello stivale d'Europa?
Poi: questa bella ragazza bionda con la maglia a girocollo, può diventare il simbolo del movimento dei giovani italiani di oggi come lo diventò Caroline de Bendern nella Parigi del '68? Mi rispondo di no. Il tempo non è lo stesso, il luogo neanche, il movimento ancora meno. Il nome che gli è stato dato, l'Onda, esprime bene tra l'altro l'essenza di questo scendere in piazza tutto italiano, tutto contemporaneo, e lo esprime in ogni sfaccetatura metaforica che al termine "onda" si possa attribuire.
Vado a cercarmi la foto di quella giovane di origini nobili che nel 1968, a Parigi, fu diseredata per essere scesa in piazza



e penso: infatti no, non ha niente a che fare.

09 ottobre 2008

Un libro con il mondo dentro

“Dentro c’è il mondo”. Gabriella Rossi, neo-presidente del Centro studi e documentazione del pensiero femminile di Torino, descrive così la raccolta “Lingua Madre Duemilaotto, racconti di donne straniere in Italia” che hanno vinto la sfida di scrivere in una lingua che non è la loro, l’italiano, per raccontare amori e abbandoni, guerre e relazioni materne. Storie vissute da un’altra prospettiva, storie ora pubblicate per dare visibilità a sfere private che sempre più hanno bisogno di voce, e che noi italiani abbiamo sempre più bisogno di sentire.

Il passo più citato alla presentazione della raccolta, e non a caso, è quello di Claudiléia Lemes Dias, brasiliana vincitrice del primo premio 2008: “Chi è lo straniero? - scrive - un insieme di no: non parla la nostra lingua, non ha le nostre origini, non impartisce la nostra educazione ai figli... Solo quando togliamo tutti questi no diventa uno di noi”.

Nel tempo il concorso Lingua Madre ha realizzato opportunità di incontro, di scambio, conoscenza e confronto, occasione per costituire una rete di relazioni che offrano opportunità di esprimersi e di prendere coscienza di sé e dello “straniero”. “Solo attraverso il confronto della propria lingua con un’altra si comprende davvero lo strumento linguistico”, ha detto Ernesto Ferrero, “chi ha scritto i racconti di Lingua Madre 2008 ha fatto la fatica di impossessarsi di una lingua che non è la sua”, mettendo in discussione se stessa, le proprie radici e la realtà “d’arrivo”.

Al concorso hanno partecipato anche molte detenute dei penitenziari italiani, una di queste, la ganese Herrety Kessiwaah, detenuta dell’istituto di pena femminile di Trapani, si è classificata al terzo posto con il racconto “Nanà”.

Il Concorso letterario nazionale Lingua Madre, ideato da Daniela Finocchi, è diretto a tutte le donne straniere residenti in Italia che vogliano approfondire il rapporto tra identità, radici e il mondo “altro” attraverso la loro nuova lingua d’arrivo, l’italiano. Una sezione speciale è dedicata anche alle italiane che vogliano raccontare di donne straniere che hanno conosciuto e che hanno trasmesso loro
“altre” identità. La scadenza della quarta edizione è fi ssata per il 31 dicembre 2008. Il libro contenente i racconti della terza edizione, 12 euro e 50, è edito da Edizioni Seb 27.

16 maggio 2008

Quei conti in classe restano un incubo

«Gli adolescenti italiani non vanno bene in matematica perché non si prendono il tempo di imparare a pensare». Vera Tomatis è vice preside della scuola media di Fossano e la sua analisi arriva dopo 31 anni dietro la cattedra. «Il problema più grande è la memoria – spiega – la matematica richiede l’apprendimento delle regole, ma oggi è molto più diffi cile fare imparare ai ragazzi nozioni mnemoniche».

A confermare la carenza degli studenti italiani nella cultura matematica è stato il rapporto Ocse 2007. L’indagine internazionale promossa dall’Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico per accertare le competenze dei quindicenni scolarizzati, mette l’Italia al trentottesimo posto. «La mamma quando lavava i piatti mi chiedeva le tabelline – ricorda Tomatis – perché un bambino non può apprendere da solo una metodologia. E va sfatato
il mito che la matematica non si studia. Non è una materia “semplicemente” da capire, ha un suo linguaggio, le regole che la sostengono vanno imparate».

Sempre secondo il rapporto dell’Ocse gli allievi italiani tra i 12 e i 14 anni dedicano allo studio della matematica il 10% del tempo, la media dei Paesi analizzati è del 13%, con un picco del 15% in Francia. L’analisi dell’apprendimento nella fascia adolescenziale è importante perché «ci sono regole mnemoniche e concetti che si devono imparare da piccoli – spiega l’insegnante – provare a farlo dopo è estremamente difficile, quando non impossibile». Secondo Vera Tomatis l’altra enorme carenza che si riscontra negli adolescenti che approdano nella scuola media è il calcolo, che come conoscenza preliminare presuppone, appunto, le tabelline.

«Il problema dei ragazzi di oggi – conclude Tomatis – è che non sono abituati a fermarsi, né a riflettere. Lavorano di getto, fanno tutto e subito o non fanno. Il compito della scuola, e della matematica in particolare, è invece quello di insegnare loro a pensare prima di fare».

Ai giovani aspiranti insegnanti, la vicepreside di Fossano vuole fare un appello: «Puntate molto sul calcolo, i ragazzi devono imparare a contare perché è un supporto indispensabile per i loro studi futuri. L’uso di strumenti informatici, poi, è importantissimo, gli adolescenti se lo aspettano. L’insegnante deve dimostrare di essere al passo coi tempi, altrimenti è finito. Senza contare che questi nuovi supporti didattici possono ridurre di molto i tempi di apprendimento».

Non si deve infine aver paura di chiedere aiuto alle famiglie: la formazione di base non può venire interamente delegata alla scuola, anche se, riconosce Tomatis, «dove gli insegnanti si spendono, sono puntuali a scuola e nelle consegne dei compiti, anche i ragazzi sono più motivati. Il modello che si propone è fondamentale». L’abilità dell’insegnante sta nel saper usare le tecniche più adeguate per raggiungere l’obbiettivo proprio della matematica: ovvero quella materia fondamentale per imparare a pensare.

11 maggio 2008

Widgets, nuovi post-it virtuali

Il desktop è mio e me lo gestisco io. Come dire: non tutti abbiamo le stesse esigenze, nemmeno in materia di informatica. Per venire incontro alla nuova era delle scrivanie virtuali personalizzate esistono i “widgets”. Il loro nome deriva dalla contrazione di “window” (finestra) e “gadget”, e sono degli elementi minimi di implementazione del sistema operativo oppure dei piccoli programmi che vanno ad arricchirlo. “Web widgets” sono invece piccole applicazioni web che permettono ai publisher online di distribuire in maniera semplice i loro contenuti integrandoli in blog ed altri siti.

Il primo sistema operativo che è stato possibile implementare con i widgets è stato Tiger (quinto aggiornamento principale di Mac OS X, della Apple), mentre il primo blog che ha permesso agli utenti di personalizzare il layout del proprio diario in rete è stato wordpress. A crearli sono degli stessi utenti che, con un minimo di conoscenze del linguaggio di programmazione, li sviluppano e poi li passano alle aziende interessate oppure li mettono in condivisione online. A questo punto qualsiasi utente può scaricarli e posizionarli dove vuole sul proprio desktop. Lo stesso si può fare nelle scrivanie virtuali come iGoogle o la home page di Windows Live o della Bbc.

«I widget si possono dividere in due categorie – spiega Andrea Toso, docente di informatica e nuovi media - quelli in modalità “push”, che sono una proposta editoriale standard delle aziende, e quelli in modalità “pull”, che l’utente può scaricare sul proprio desktop o sul proprio cellulare scegliendoli secondo le proprie esigenze». L’iPhone, sempre di Apple, permette un alto livello di personalizzazione sempre grazie ai widgets: «I nuovi sistemi operativi saranno sempre più virtuali, per questo i widgets prendono piede – continua Toso – ed è una buona notizia, signifi ca che la nuova tendenza dei sistemi operativi è quella di fornire sono le utilità di base, lasciando il resto alla creatività degli utenti».

Troviamo così dei programmini più o meno utili che ci permettono di capire come diminuire il consumo di Co2 del nostro computer (co2saver.snap.com), magari mostrando in tempo reale quante migliaia di alberi stiamo salvando (www.localcooling.com).
Google, Mac e Windows hanno naturalmente le loro pagine dedicate (www.google.it/ig/directory, www.apple.com/it/downloads/dashboard, gallery.live.com).
Anche la città di Torino si sta dotando di propri widgets: le notizie in evidenza, gli ultimi appuntamenti in diretta da Torinocultura, le informazioni sul traffi co e sui mezzi pubblici in tempo reale, le agenzie quotidiane di informazione (TorinoClick e cittAgorà), il meteo, le curiosità, e altro ancora. Per saperne di più: www.comune.torino.it/web20.

09 maggio 2008

L'arte diventa business

Avete nel cassetto un business plan culturale ma non sapete quali fondi potrebbero aiutarvi? Volete sapere come gestire al meglio il vostro evento con il minimo dispendio? Allora avete bisogno di un manager culturale. Per essere più precisi, di un “razionalizzatore del sistema”.
Secondo Manuela Lamberti, anima del master “Destinazione Cultura”, dedicato a chi manager culturale vuole diventarlo: «C’è grande bisogno di queste figure, di questi gestori della complessità. Serve qualcuno che possa cercare un bando per ottenere fondi mentre, nello stesso momento, cerca chi cambi le lampadine. Insomma, una persona che sappia esattamente cosa serve per gestire il sistema che ha tra le mani».

Destinazione Cultura” è un master di I livello in economia e management della cultura giunto alla sua seconda edizione, in cantiere però c’è già la terza. In seno alla Scuola Universitaria di Management d’Impresa dell’Università di Torino, per 12 mesi, poco meno di una decina di studenti hanno la possibilità di confrontarsi, oltre che con i docenti universitari, anche con, solo per citarne alcuni: Agostino Re Rebaudengo, presidente del Teatro Stabile di Torino fino al maggio 2007 e attualmente presidente e amministratore delegato di Asja, multinazionale del settore delle energie rinnovabili; Steve Della Casa, direttore del Torino film Festival dal 1999 al 2002, critico cinematografico per la Rai e La Stampa, attuale presidente della Film Commission Torino-Piemonte; Gabriele Ferraris, direttore di Torino Sette.

«Cercavo un master che riguardasse la cultura – racconta Silvia Vezzoli, studentessa della prima edizione – ho scelto questo perché si differenziava molto rispetto alle offerte formative delle altre università, mi è sembrato innovativo e non mi sono pentita. Anche le docenze non universitarie, che hanno portato all’interno delle lezioni esperienze di lavoro quotidiano, hanno favorito un approccio più reale alla materia». Silvia, come gli altri sei suoi compagni, ha dimostrato che l’ambizioso obbiettivo di Manuela Lamberti («I nostri studenti devono acquisire competenze diverse da tutti gli altri, e durante i loro stage devono diventare insostituibili per l’azienda») non è solo una chimera: tutti e sette sono stati riconfermati dopo lo stage.

Al master gli studenti imparano a conoscere i meccanismi labirintici della Siae, i diversi tipi di contratti, il management degli enti e degli eventi culturali, la gestione delle risorse umane, dove trovare e come gestire i finanziamenti pubblici e privati, le relazioni pubbliche e la comunicazione con le diverse testate giornalistiche, il diritto dei beni culturali e degli enti no profit.
Potrà sembrare una visione poco “romantica”, ma è di certo molto più realista, lo ribadisce anche Gabriele Ferraris, comunicatore culturale di lunga data: «Non è un destino ineluttabile che la cultura sia in perdita, anzi. Da Leonardo a Kubrick esistono fior di esempi che dimostrano il contrario. Se non fosse così solo i ricchi potrebbero occuparsi di cultura, ma è bene ricordare che
una delle più grandi opere della storia, la Comedie humaine di Balzac, è stata scritta per pagare dei debiti».

Usando le parole di Manuela Lamberti, servono quindi professionisti, e se è vero che nessun lavoro si improvvisa quello del manager culturale non sfugge alla regola. Non per niente i testimonial delle scorse edizioni del master sono stati Gabriele Lavia e Luca Barbareschi, personalità estremamente poliedriche: Lavia, attore e regista sia cinematografico che teatrale, negli anni ‘80 è stato co-direttore artistico del Teatro Eliseo di Roma e dal 1997 al 2000 direttore artistico dello stabile di Torino; Barbareschi, in trent’anni ha spaziato tra teatro, cinema e televisione in qualità di attore, produttore, regista, sceneggiatore e conduttore, socio fondatore anche di una società informatica oltre che della casa di produzione Casanova Entertainement, è stato eletto deputato nelle fila del Pdl alle ultime elezioni politiche.

Per entrare nella rosa dei futuri manager, sotto l’ala protettrice del nuovo testimonial, Neri Marcoré, si dovranno sostenere tre prove scritte e un colloquio, il tutto individualmente. Lezioni dal lunedì al venerdì dalle 9 alle 13, costo 10mila euro comprensivi di tutte le attività previste e del materiale didattico.

17 aprile 2008

Come si fa un webmagazine

"Artigrafie" è il nuovo web magazine che parla dell’arte in ogni sua forma ed espressione. Ideato da quattro giovani torinesi, il progetto è stato possibile grazie al lavoro sinergico di una ventina di amici uniti da questa passione comune.

«Artigrafie è un magazine online a metà strada tra il sito e il blog», spiega Elena, una delle quattro ideatrici che, con Marta, Ersilia e Sara, una sera davanti ad un drink, ha avuto l’idea di partire con questa nuova avventura del web.

Progetto senza fini di lucro e ambizioso, visto che si ispira nientemeno che a Kant: «Bè, certo, Kant è un nome grosso – confessa Elena – però siamo davvero convinti che quanto dice nella critica del giudizio sia profondamente vero: quando formuliamo un giudizio di gusto non ci immaginiamo soli, ma pensiamo ad un’umanità disposta a condividere la nostra valutazione».

"Artigrafie" conta così quattro sezioni. La prima, Orizzonti, raccoglie i testi che raccontino punti di vista inediti sull’arte. Oasi sperimenta la scrittura creativa. Scoperte è uno spazio-vetrina per creazioni da condividere orizzontalmente (peer production), Agorà, infine, è uno spazio aperto a commenti e confronti.
Chiunque può inviare materiale e contribuire allo sviluppo del magazine, l’unica clausola è accettare di pubblicare sotto la stessa licenza Creative Commons scelta dal sito.

«Artigrafie è una redazione aperta, sia al suo interno che verso l’esterno: tutte le idee vengono discusse, e quelle buone vengono certamente accolte – racconta Alberto, uno dei redattori – Tutto è organizzato da giovani appassionati ma si lavora professionalmente, c’è serietà sia durante le riunioni di redazione che nel rispetto dei tempi di consegna».

Le sezioni sono legate tra loro da un fil rouge tematico: per il primo numero, online dal 18 marzo, l’ispirazione è venuta dalla "giostra", per il prossimo, invece, il tema conduttore sarà "scacco al re".

www.artigrafie.it

Simulare metropoli in 4D

Rendere visibile l’invisibile è la missione del LAQ-TIP, il laboratorio di alta qualità per la progettazione territoriale integrata del Politecnico di Torino. Il LAQ crea rappresentazioni del territorio ed elabora progetti e scenari per la città, e non solo, del futuro.

«Per prefigurare i possibili futuri di una città o di un territorio è fondamentale, prima di tutto, analizzare l’esistente – spiega Luca Caneparo, direttore tecnico del Laboratorio – non solo dal punto di vista degli spazi fisici, ma anche da quello della densità urbana in una determinata ora». Così la quarta dimensione esplorata dagli esperti del laboratorio, ovvero il tempo, prende la forma di curve che mutano in altezza e in intensità di colore a seconda dell’ora della giornata: «Rendere visibile anche come le porzioni della città vivono nell’arco delle ventiquattrore – spiega Caneparo – significa capire quali di esse sono a rischio criminalità o desertificazione».

L’analisi di quella che viene chiamata "mixité" consente appunto di capire quale sia il grado di multifunzionalità di un dato edificio o di una data area, e questo permette di progettare conseguentemente spazi vivibili per chi già abita in quella zona, per chi ci lavora o per chi vi transita. Tenere conto di queste variabili significa favorire la vita di relazione, la fruizione di un quartiere in condizioni di sicurezza, l’interazione e lo scambio fra gli spazi privati e quelli pubblici.
«Lo sviluppo di una città e di un territorio – continua Caneparo – è frutto di fenomeni estremamente complessi, di variabili incognite che rendono ardua la progettazione di un qualsiasi scenario futuro, che dipende, in fin dei conti, dalla decisione di esseri umani in un determinato momento, e a conoscenza di determinate variabili».

Ma proprio qui sta il punto: il momento successivo all’analisi, ovvero la simulazione, fa vedere ai cittadini uno o più futuri possibili, e questo permette ai singoli individui di pensare concretamente alle conseguenze di determinate scelte, «perché gli esseri umani si muovono sulla base di aspettative», conclude Caneparo.
Dietro le quinte la simulazione della realtà virtuale avviene grazie ad un cluster computer ad alte prestazioni di calcolo, ovvero grazie ad una serie di workstation che lavorano in sincronizzazione per elaborare dati. Nella realtà virtuale, le immagini non sono calcolate in precedenza ma vengono generate in tempo reale. Tutto il sistema di calcolo è quindi collegato in fibra ottica e permette agli "spettatori", muniti di appositi occhiali stereoscopici, di godere appieno della tridimensionalità di uno dei teatri virtuali più grandi d’Europa. È possibile ottenere una visione tridimensionale, infatti, creando un’immagine per ciascun occhio, generate secondo la distanza oculare. Tramite gli occhiali stereoscopici, il cervello interpreta le due immagini, le "fonde" in una scena tridimensionale, di cui percepisce la profondità. Per proiettare gli scenari futuri, il LAQ dispone di sei coppie di proiettori.

«La realtà virtuale è forse meno definita rispetto alla computer grafica – riconosce il direttore del laboratorio – ma, mentre guardando un video il cittadino è passivo, qui ha possibilità di esplorare la città, i progetti. Il cittadino, come il tecnico, può verificare la correttezza della rappresentazione a partire dai punti di riferimento che conosce: la propria abitazione, il quartiere. Cominciando da qui, inizia ad esplorare i progetti, gli scenari, i futuri possibili». Magari con la bici, appositamente realizzata per il collegamento al cluster, facendosi un giro per le strade di Torino 2020.

Attraverso la sua tecnologia, il laboratorio multidisciplinare LAQ-TIP si pone non solo come progettista di scenari futuri, ma anche come concreto supporto strumentale per i processi decisionali che porteranno, o meno, alla costruzione di nuovi spazi urbani.

www.laq-tip.polito.it

16 aprile 2008

Dove la tecnologia diventa etica

La tecnologia è la risposta, ma qual è la domanda? Il dilemma attribuito a Amory Lovins è il punto di partenza del primo corso di Computer Ethics dedicato ai futuri dottori di ricerca del Politecnico di Torino.

Un corso interdisciplinare fortemente voluto dal direttore della scuola di dottorato del Politecnico, il professor Mario Rossetti, il cui logo non a caso è rappresentato da una serie di ellissi che si intersecano in più punti. «Da troppo tempo chi viene da discipline scientifiche pensa che i prodotti tecnologici non siano influenzati dal contesto e non lo influenzino – spiega il docente del corso, il professor Norberto Patrignani – l’obbiettivo sarà quello di sensibilizzare i professionisti, gli utenti, chiunque si occupi di computer, sull’impatto sociale dell’informatica. La tecnologia non è amorale, né neutra, impone anch’essa scelte etiche».

Il percorso, iniziato lunedì 14 aprile, è interdisciplinare e aperto a tutti i dottorandi del politecnico, si svolgerà in lingua inglese per permettere la partecipazione anche agli studenti stranieri. I tredici argomenti del corso, suddiviso in due parti, una storico-metodologica e una di analisi di casi, toccheranno i maggiori problemi etici contemporanei.

Dall’eDemocracy, all’accessibilità e al divario digitale, tema che riguarda non solo banalmente l’accesso ad internet ma anche alla tecnologia stessa, si pensi ai paesi non industrializzati; dall’educazione, ai diritti d’autore e ai crimini informatici, passando per il problema dell’affidabilità. Tema cruciale quest’ultimo non tanto per i crash dei sistemi nei pc di casa, quanto piuttosto di quei luoghi, come gli ospedali, in cui si può mettere in gioco la vita. Passando ancora per l’intelligenza artificiale, robot maggiordomi da fantascienza, venduti anche a centomila dollari oltreoceano, porranno il problema di un’etica da "programmare" al loro interno, tema questo direttamente legato al rapporto tra tecnologia e guerra: «Dei robot guerrieri sono già in fase di sperimentazione», ricorda il docente. Infine il problema dei rifiuti che, tutto sommato secondo Patrignani, è il più esplorato: «Ci sono tre fasi per risolvere un problema socialmente importante: quella del dibattito che lo fa emergere, quella in cui le organizzazioni si danno linee guida e codici etici e la fase finale della legge. Nel caso dei rifiuti tecnologici siamo già alla normativa».

Deborah Johnson, filosofa docente alla Scuola di ingegneria e scienze applicate dell’Università di Virginia, è una delle pioniere della Computer Ethics, restando fedele a queste basi il corso organizzato dal Politecnico di Torino vuole essere un importante contributo alla formazione di persone in grado poi di dare una giusta valutazione delle implicazioni sociali ed etiche della tecnologia. Anche perché, conclude Patrignani, «le imprese chiedono professionalità più rotonde, non bastano più le competenze tecniche, serve anche una certa sensibilità».

Sette vite per un pc

Più di dieci anni con lo stesso pc? È possibile. Lo dimostra l’esperienza dell’Itis Majorana di Grugliasco, il cui laboratorio linguistico (foto in basso) funziona con dei Compaq Presario 5352, processore Celeron a 433 Mhz, 128 Mb di Ram e Windows 98 come sistema operativo. Per farsi un’idea: i desktop in commercio dalla fine del 2007 montano processori a 1,60Ghz di media e minimo 1 Gb di Ram, ovvero 10 volte tanto, mentre uno smartphone funziona con un processore a 624Mhz e almeno 128 Mb di Ram.

Nonostante questo il laboratorio linguistico del Majorana non si fa mancare nulla per quanto riguarda la didattica: i computer possono riprodurre dvd e cd-rom per lo studio delle lingue, hanno office, un programma di registrazione digitale e sono connessi in rete. Certo non hanno l’ultima versione dei sistemi operativi né i programmi più performanti, ma non cadere nella tentazione del consumismo informatico ha permesso all’Itis di Grugliasco di evitare il cambio periodico dei pc (con un risparmio stimato in circa ventimila euro in dieci anni) e i costi legati all’assistenza tecnica.

Tutto ciò è stato possibile grazie a dei componenti aggiuntivi a basso costo che hanno "congelato" la dotazione software (con programmi come Deep Freeze di Faronics) e impediscono inoltre qualsiasi operazione di scrittura sul disco rigido (come la Magic Card di Rogev o la Recovery Card di Incomedia). Così i pc si conservano come nuovi venendo ripristinati ad ogni avvio, parola di Dario Zucchini, responsabile tecnico dell’Itis.

Il Majorana di Grugliasco certamente non è l’unica scuola che si è posta il problema del riuso di pc obsoleti, né il metodo usato è valido per tutti i computer in tutte le situazioni. Il punto sta nel capire cosa significa "recuperare" e "riutilizzare" la tecnologia. In uno dei post del blog "Il doposcuola" (blog.dschola.it) Marco scrive: «Recuperare significa poter continuare ad usare in modo congruente con i propri obiettivi intellettuali, culturali, didattici, formativi, a prescindere da (oziose) questioni tecniche e senza dover dipendere da enti, procedure, certificazioni, validazioni, assistenze esterne».

Anche l’uso della tecnologia, insomma, deve diventare cosciente e responsabile, perché il problema non è solo economico, ma diventa anche ecologico. Per questo si diffondono sempre più associazioni e cooperative che si occupano del recupero di materiale informatico ancora funzionante o del suo smaltimento, come fa ad esempio la Cooperativa Sociale Arcobaleno di Torino con il progetto Transistor dedicato alle aziende.

E i Raee chi se li prende?

I rifiuti di apparecchiature elettriche ed elettroniche (Raee) si possono e, soprattutto, si devono smaltire. Da febbraio 2008 sono i produttori ad avere la responsabilità della raccolta e del trattamento dei rifiuti elettronici. Ma anche i compratori fanno la loro parte pagando, al momento dell’acquisto, un eco contributo.

Il 27 settembre 2007 proprio a Torino è stato costituito Apiraee, il consorzio nazionale delle piccole e medie imprese per lo smaltimento dei rifiuti elettronici. «La responsabilità del consorzio comincia nelle piazzole ecologiche dove aziende e privati possono lasciare i loro raee – spiega Gabriele Muzio, responsabile del servizio tecnico di Api Torino – I produttori consorziati si occupano del trasporto dei rifiuti dalle piazzole ai luoghi di stoccaggio e del successivo invio verso gli impianti di trattamento e recupero o di smaltimento finale». Per "produttori" si intende chi fabbrica l’apparecchiatura o la fa costruire per metterci il proprio marchio, o anche chi importa prodotti in Italia. Non sono considerati produttori invece quei commercianti che si limitano alla distribuzione, anche se dovrebbero avere l’onere di ritirare i rifiuti dei privati. «Su questo punto però la normativa non è ancora chiara – precisa Muzio – perché manca una copertura di legge per l’appropriamento dei rifiuti di terzi».

«La legge impone di incrementare la percentuale di recupero all’80% del peso medio per i grandi apparecchi e al 75% per le apparecchiature informatiche per le comunicazioni – spiega Muzio – ed è anche per questo motivo che nella normativa si parla molto di progettazione: per raggiungere gli obbiettivi richiesti i nuovi apparecchi dovranno essere progettati in base alla separabilità dei componenti e prevedendo l’uso di materiali che possano avere una seconda vita. Una presenza massiccia di materiali nocivi rende certamente difficile il recupero».

Il consorzio cerca quindi di fornire alle imprese uno strumento per rispondere ad obblighi onerosi che sarebbero difficilmente assolti, ad esempio, da piccole imprese a conduzione familiare. Secondo la normativa anche gli oneri di ricerca e innovazione sono tutti a carico delle imprese, per questo, attraverso il consorzio, si stanno tentando accordi con le università.

Per maggiori informazioni: www.centrodicoordinamentoraee.it

I rifiuti? Finiscono anche nel Terzo Mondo

Dove la legge non arriva e ogni vita umana non vale più del filo di rame che deve essere recuperato, si possono vedere bambini che attizzano fuochi per bruciare lo strato isolante che lo copre, o padri di famiglia che dividono il piombo fuso da circuiti stampati. Quei bambini respirano fumi saturi di diossina e metalli pesanti. Quella famiglia userà le stesse pentole usate per il piombo anche per cucinare. Quei fili di rame e quei circuiti stampati provengono dai paesi tecnologicamente avanzati.
Il ciclo dell’elettronica produce spazzatura, o e-waste, altamente pericolosa per l’ambiente. Non solo piombo ma anche cromo esavalente, mercurio, cadmio. Tutti elementi altamente tossici che non si dovrebbero liquidare con leggerezza.
La convenzione di Basilea, che ha imposto ai paesi sviluppati di notificare a quelli del Terzo Mondo qualsiasi spedizione di rifiuti potenzialmente pericolosi, è stata firmata nel 1989 da 170 stati. Si dimostrò troppo debole. Un emendamento del 1995 ha allora proibito del tutto l’esportazione dei rifiuti pericolosi.
Sette anni dopo, nel 2002, l’Unione Europea ha stabilito che devono essere i produttori a farsi carico dello smaltimento sicuro dei rifiuti elettronici. In Italia la norma è operativa dal 18 febbraio 2008.

(liberamente tratto da National Geographic, gennaio 2008)

19 marzo 2008

Sulle note dell'invidia

Non fa male solo psicologicamente, ma anche materialmente. Tra donne, e pure soprani, l’invidia può diventare terrificante». Lo racconta Silvana Moiso, soprano e maestro di canto al conservatorio di Torino.
«Quando ebbi il primo figlio – continua – qualcuno disse in giro che mi ero ritirata. Una voce del genere può danneggiare profondamente la vita professionale di un artista».

A volte sembra difficile distinguere tra sabotaggi e goliardia, ma un soprano ne ha di aneddoti da raccontare: «Era il 1975 e sostituivo Renata Scotto nella Bohème – ricorda Moiso – alla fine del primo atto dovevo chiudere in do, in duetto col tenore, che in quell’occasione era Ottavio Garaventa. La nota deve essere tenuta fino all’uscita di scena. Beh, appena fuori dalla vista del pubblico, il tenore mi ha tappato la bocca con uno schiaffo perché non potessi tenere la nota più a lungo di lui».

In una piccola aula di prova lungo la galleria degli strumenti al primo piano del conservatorio, Silvana Silbano, anche lei maestro di canto, è circondata dei suoi studenti: «Ci sono persone che non sanno accettare i propri limiti – precisa – è da qui che nasce l’invidia, è un sentimento tanto infantile... ma a volte può anche rovinarti la carriera».


Se le mura del Teatro Regio o dell’auditorium Rai sembrano avere più di qualche storia da raccontare, tra i corridoi del conservatorio di Torino sembrano non spirare i venti dell’invidia: «Da noi solo sana competizione», è l’affermazione corale di Mauro Bouvet, professore di armonia e analisi, e Daniela Carapelli, maestro di pianoforte.
Il confine tra l’invidia e la sana competizione è spesso sottile, ma a guardare i giovani che entrano ed escono dal portone che dà su via Mazzini non si può dar torto agli insegnanti: tutti si salutano di fretta ma senza dimenticare il sorriso, si fanno coraggio l’un l’altro mentre attendono impazienti i voti degli esami. Guardano con riverenza e rispetto i loro maestri, che a loro volta li salutano affettuosamente.

«Quando si parla di invidia – dice Bouvet – si pensa a gesti scorretti, a dispetti fatti per evitare che qualcuno arrivi dove noi non riusciamo ad arrivare, ma di atti del genere nel nostro conservatorio non ho memoria». Al di fuori è invece luogo comune pensare che nel mondo dello spettacolo dispetti e sabotaggi siano all’ordine del giorno, forse per un’innata tendenza ad amplificare i difetti di ciò che ci sembra lontano: «Gli episodi che eventualmente si possono verificare in conservatorio – ridimensiona Carapelli – sono più che altro piccolezze che riguardano la vita di tutti i giorni, né più né meno di quello che accade nelle altre scuole o all’università».

Né c’è invidia tra chi si vede economicamente più sfortunato e chi problemi economici invece non ne ha: «Esistono lasciti testamentari, dedicati a certi strumenti, che permettono di offrire borse di studio o agevolazioni economiche a chi presenta notevoli doti musicali», ricorda Carapelli.
Per i loro docenti, insomma, i giovani aspiranti musicisti del conservatorio di Torino non sono animati da un istinto al sabotaggio, ma al contrario da una forte ammirazione per gli studenti più avanti negli studi. Chi entra in conservatorio, poi, fa già parte di una selezione e sceglie di studiare musica parallelamente ad altri percorsi formativi. Motivo in più per non aver tempo per l’invidia.

22 gennaio 2008

Dottorandi alla riscossa

Più di 11 mila firme sono state consegnate lo scorso 20 novembre al Ministro per l'Università e la Ricerca Fabio Mussi, a dimostrazione che la petizione “1000 euro al mese” lanciata dall'associazione dottorandi italiana (Adi) il 6 giugno 2006 ha smosso qualche coscienza.

La petizione chiede l'aumento del limite minimo della borsa di dottorato da 809 euro ad almeno 1000 euro mensili, chiede inoltre di abolire la possibilità del dottorato “gratuito” consentita dalla legge. L'Adi sottolinea come l'ammontare delle borse italiane non abbia paralleli all'estero e incoraggi perciò la famosa “fuga dei cervelli” e definisce il dottorato senza borsa deleterio per la qualità della formazione, visto che «da un ricercatore che non è pagato non si può esigere quell'impegno e quella dedizione sistematica che deve invece caratterizzare sempre la formazione alla ricerca».

In realtà almeno uno dei sostanziali cambiamenti richiesti dall'Adi è stato accolto dal parlamento ancora prima che la petizione arrivasse sul tavolo del Ministero. L'emendamento alla legge finanziaria firmato dal senatore Giuseppe Valditara, ordinario di diritto romano all'università di Torino, che prevede lo stanziamento di 40 milioni di euro all'anno per i prossimi tre anni, è stato approvato in via definitiva a fine dicembre. «L'aumento potrebbe essere intorno ai 140-150 euro mensili – afferma Chiara Manfredotti, socia Adi, un dottorato in scienze chimiche alle spalle e ora assegnista di ricerca – bisognerà attendere il decreto del ministero di cui per ora non risulta ci sia traccia. Lo stesso per capire se ci sarà copertura per le borse cofinanziate, quelle non pagate direttamente dal ministero dell'università». Per quanto riguarda invece l'eliminazione della figura del dottorando senza borsa bisognerà aspettare la riforma del dottorato, attualmente allo studio del Ministero dell'Università e della Ricerca.

Tutti contenti quindi? No. Per alcuni dottorandi, che pur riconoscono come positivi i risultati ottenuti, si deve fare molto di più: «L'università non può più essere la stessa di 10 anni fa – dice Davide Grasso, 27 anni, al suo primo anno di dottorato con borsa – non può continuare ad essere un residuo feudale. E quello che rimprovero all'Adi è di accettare questo sistema, agendo anch'essa secondo schemi corporativi, mentre in realtà esistono interessi comuni tra studenti, dottorandi, ricercatori. Dobbiamo tutti insieme cambiare il modo di essere università».
Secondo Davide non si può negare che «ogni dottorando cerchi di far carriera sulle spalle degli altri. Non c'è nessuna differenza tra il lavoro svolto da chi ha la borsa e da chi non ce l'ha, la differenza la fanno quelle collaborazioni col dipartimento che sono “in più” rispetto al lavoro di ricerca, come la correzione di bozze per le case editrici, l'organizzazione di convegni o la cura dei siti, ovvero le attività che “aprono la pista” ma che magari quelli senza borsa, a meno che non siano ricchi di famiglia, non hanno il tempo di svolgere».

Dello stesso parere Andrea Benino, 29 anni, che ha concluso il suo dottorato senza borsa l'ottobre scorso: «Avere o non avere la borsa non cambia la qualità del percorso, ma di sicuro cambia la percezione che ne ha lo studente. Se si accede a questo “stipendio” ci si può davvero dedicare anima e cuore alla ricerca, senza soldi invece si ritaglia il tempo per studiare come per un hobby». Per Andrea è sicuramente discutibile l'esistenza di dottorati senza borsa, vista la realtà dei posti limitati, ma «altrettanto contestabile è la restrizione dell'accesso all'ultimo stadio della formazione che, borsa o non borsa, non garantisce davvero di avere un futuro coerente con l'aura elitaria che si vuole dare al dottorato. Anche chi ha avuto la borsa per tre anni non ha alcuna garanzia di lungo termine».

Scoppierà in rete la nuova guerra enciclopedica?

Presto ci sarà una nuova enciclopedia online fondata, stavolta, sulla competizione tra i suoi redattori. Il nuovo progetto di Google, denominato “Knol”, è stato reso noto il 13 dicembre scorso nel blog ufficiale dell'azienda di Mountain View, California.

Immediato e inevitabile il confronto tra Knol e Wikipedia, la famosa enciclopedia libera nata nel 2001 che il 15 gennaio ha raggiunto i sette anni di attività e che conta più di 9 milioni di articoli.
«La motivazione di base dell'iniziativa Knol potrebbe essere legata alla “conquista della terza pagina” – spiega Andrea Crevola, docente di Web Design all'università di Torino – Google è un sistema a due pagine, la maschera di ricerca e il risultato, mancano link interni al sistema: più movimento all'interno di Google significa più ricchezza per l'azienda».
Il “gigante buono” del web pone però l'accento sull'importanza di diffondere la conoscenza, e nella presentazione del progetto spiega la propria posizione: «Crediamo che sapere chi scrive cosa aiuterà significativamente gli utenti a fare un migliore uso dei contenuti web». La verità verrà sicuramente a galla, concordano gli esperti del web: «La rete offre spazio a tutti gli esperimenti – spiega Giuseppe Granieri, saggista e consulente su innovazione e sociologia dei media – ma sopravvivono e vengono utilizzati solo quelli che trovano il consenso di una sufficiente massa critica di utenti».

Gli esperimenti Knol e Wikipedia divergono su alcuni punti salienti: mentre la seconda si basa sulla collaborazione tra gli utenti, in Knol ogni utente potrà pubblicare una “unità di conoscenza” in competizione con le altre. Inoltre in Knol ogni autore “ci metterà la faccia”, mostrando la propria identità e le eventuali credenziali.
Resterà il problema della certificazione della qualità spesso rimproverato a Wikipedia, ma questo, spiega Crevola, riguarda più in generale la rivoluzione del web: «Non c'entra che ci sia il bollino di Wikimedia o di Google, in ogni caso quello che ci si aspetta da queste media corporation, visto che vogliono dare forma alla cultura, è che si interessino non solo a questioni importanti per loro ma che assumano anche un ruolo etico. Ad esempio: devono inserire strumenti tecnici che permettano un controllo dal basso, e la scelta di certi strumenti piuttosto di altri incorpora sempre un modello di comportamento».
«A livello etico, sono scelte – ribadisce Granieri – a livello pratico la storia dimostra che laddove il processo non è equilibrato, gli utenti si allontanano dal servizio che stanno usando. Wikipedia interviene sui contenuti, ma con logiche e interventi trasparenti». Su Google, per ora, non si possono che fare ipotesi.

In ogni caso Giuseppe Granieri non crede che questi esperimenti possano essere ricondotti al concetto di enciclopedia “tradizionale”, visto che non è distribuita nella stessa ampiezza, è costosa, più lenta da consultare e non aggiornabile in tempo pressoché reale: «Abbiamo una grande infrastruttura di comunicazione, che può contenere e gestire una quantità di informazioni mai vista nella storia dell'uomo. Ci sono diversi strumenti, diversi tentativi e nessuno sarà mai onnicomprensivo. Ogni utente, per la grammatica della rete, sceglierà il metodo di ricerca e di accesso alle informazioni che più gli viene utile in un dato momento, tra tutti quelli disponibili. Che non si escludono tra loro. Si completano».

Diventa cruciale quindi l'educazione all'uso: ciò di cui più necessitano i giovani studenti di oggi, fa notare Crevola, sono le istruzioni per accedere a questa massa potenzialmente infinita. Capire come valutare, verificare e soprattutto mettere in relazione le nozioni, sono capacità che vanno coltivate. «Uno dei rischi di Knol – pone come esempio Crevola – potrebbe essere la possibilità che gli articoli, essendo gestiti da un unico utente, restino statici per molto tempo, a differenza degli articoli di Wikipedia».

Di Knol non si conoscono ancora tutti i dettagli, ma alcuni punti di forza come un'interfaccia standard sembrano essere già delineati. Resta da capire in che modo i lettori potranno commentare gli articoli: «Potrebbero inserire un sistema di feedback come quello di eBay – ipotizza Crevola – ma mentre per la compravendita di oggetti questo sistema è ottimo, potrà esserlo anche per la valutazione di temi come l'aborto, il creazionismo contro l'evoluzionismo o la pena di morte? Settori pericolosi per l'opinione pubblica come produrre conoscenza, acquisire informazioni personali sugli utenti, sono situazioni delicate e a volte al limite del lecito. L'atteggiamento etico assunto sarà fondamentale perché Google non veda intaccata la sua candida immagine di “gigante buono”».

Come per Linux contro Microsoft, insomma, diventerà forse più una questione di valore che di effettiva qualità del servizio.

16 gennaio 2008

Netscape è morto

Dopo 13 anni di onorato servizio e una causa vinta contro Microsoft per abuso di posizione dominante, Netscape sta per abbandonare la scena di Internet. America On Line (Aol), che lo aveva comprato nel 1998, ha deciso che dal primo febbraio smetterà di sviluppare il browser che aprì le porte al world wide web.

Passato dal 90% degli utenti degli anni '90 all’attuale 0,6%, Netscape sarà lasciato morire di morte naturale: senza aggiornamenti di protezione anche quel residuo 0,6% arriverà piano piano a zero. Resterà comunque attivo il download di Netscape 9, magari a titolo di conoscenza o di studio.
La storia di questo pioniere del web merita allora di essere ripercorsa.

In principio era Mosaic, primo browser grafico sviluppato al National Center for Supercomputing Applications. Era il 1993. Un anno più tardi, si può dire da una sua costola, fu creato Netscape. Il fondatore della Netscape Corporation era infatti Marc Andreessen, uno degli sviluppatori di Mosaic, che decise di utilizzarne le tecnologia per fini commerciali.
«Mosaic – spiega Cristina Gena, ricercatrice al dipartimento di informatica dell'Università di Torino – funzionava solo in ambiente Unix. Netscape fu invece il primo browser grafico ad alta diffusione commerciale sul quale vennero messi a punto linguaggi web largamente diffusi, come ad esempio Javascript».

Il compito di un browser web è quello di ricomporre graficamente l’insieme di codici e linee di comando. Più linguaggi può codificare un browser, più universale sarà il suo servizio. Può sembrare strano perciò che a decretare il declino di Netscape, leader dei browser web per tutta la seconda decade degli anni ’90, sia stato Internet Explorer, che fino alla versione 6.0 non si è sforzato più di tanto per aderire agli standard dettati dall'organismo internazionale competente (W3C). «In un mondo ideale – spiega Gena – tutti i browser dovrebbero comportarsi di conseguenza. In realtà gli sviluppatori sono costretti a scrivere codici diversi per i diversi browser». Il che significa maggiori costi di programmazione e gestione.

La guerra tra Microsoft e Netscape Corporation è cominciata con un certo ritardo, visto che all'inizio dell'era Internet Bill Gates non credeva che la rete sarebbe diventata un fenomeno mondiale. Quando se ne accorse iniziò il boicottaggio: « Microsoft non solo inserì come default il suo web browser nel sistema operativo – racconta Franco Sirovich, docente di informatica all’Università di Torino – ma fece di tutto per rendere complicato l'utilizzo di Netscape in Windows. Solo un esempio: con i modem a 56k, aprendo Explorer si apriva automaticamente l'interfaccia di connessione, con Netscape no. È chiaro che un utilizzatore base non andava a cercare nelle proprietà di connessione».

Netscape Corporation fece causa contro Microsoft, vinse e venne risarcita per 720 milioni di dollari. Ma la vittoria in tribunale non bastò, ormai Explorer si era diffuso insieme ai sistemi operativi Microsoft, monopolizzando il mercato dei browser e non solo. Per risollevare la propria sorte, Netscape rese libero il suo codice “sorgente”, ovvero l'insieme delle istruzioni che compongono il programma, aprendo la strada a browser open source come Firefox.
«Tuttavia, anche se era diventato libero – spiega Sirovich – Netscape continuò a pagare la sua storia di browser commerciale, mentre gli sviluppatori della Mozilla Foundation, che hanno creato i loro programmi fin da subito come open source, sono stati accolti con più fiducia dagli utenti».

Firefox oggi vanta una fetta di mercato pari al 20% degli utenti, mentre Microsoft continua a doversi difendere dalle accuse di abuso di posizione dominante. «Internet Explorer, inoltre – continua Sirovich – continua a peccare in sicurezza. Microsoft ha sempre fatto poco da questo punto di vista».
La morte di Netscape forse potrà essere riscattata.

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