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10 maggio 2007

Spingendo la notte più in là

Se si scrive una storia personale non è facile essere obbiettivi. Ma se si è anche giornalisti, è un dovere esserlo? Secondo Mario Calabresi, che al Café letterario della Fiera del Libro di Torino ha presentato il suo libro Spingendo la notte più in là (edito da Mondadori), «in una storia personale non si può essere obiettivi, se lo si fosse non si potrebbe raccontarla. Esponendo il proprio punto di vista, però, è necessario restare aderenti alla realtà, bisogna asciugare il racconto ed essere il più semplice, il più chiaro, il più lineare e il più vero possibile. Bisogna restituire la freschezza del punto di vista. Il valore sta nel mostrare un'esperienza, perché il lettore possa farne tesoro».



“Show & tell”, mostra e racconta, è l'insegnamento della Columbia University. Anche Mario Calabresi ha voluto mostrare il percorso del dolore e come si può provare ad uscirne: «Mia madre – racconta Calabresi – aveva 25 anni quando mio padre è stato ucciso, e ha deciso di scommettere sulla vita, ha “spinto la notte più in là"».

Nello spiegare com’è nato il suo libro, Mario Calabresi, racconta che il bisogno privato si è incrociato con l’esigenza pubblica. Il dibattito nato dopo l’elezione di D’Elia,
è stato il fatto scatenante che ha fatto sorgere un'insofferenza crescente. La cosa particolare non è tanto che un ex-terrorista sia stato eletto in Parlamento («se è possibile per legge, è giusto», precisa Calabresi), ma il dibattito che ne è seguito: «Il morto ucciso da D'Elia è stato completamente assente da questo dibattito, gli interlocutori erano gli ex-terroristi e la politica. In Italia non ci si è fatti carico, ma si è messo da parte, non si sono fatti i conti con la violenza che ha fatto parte di una generazione. Nel dibattito politico si sono tagliate fuori le conseguenze dei gesti terroristi, è per questo che ho ritenuto che valesse la pena di raccontare, di mostrare».

«Non ho aspettato che fossero altri a scrivere – continua Calabresi – era il momento di mettere parte della mia vita in un'opera giornalistica. Nel libro racconto gli ultimi mesi di vita di mio padre e il periodo subito successivo». Secondo Calabresi la memoria, per non essere “burocratica”, deve raccontare la vita vera. Nelle scuole ad esempio si dovrebbero ricostruire i personaggi, farli tornare in vita attraverso racconti che non siano troppo lontani dai ragazzi. «Se “eroe” è qualcuno che fa il suo lavoro con passione fino in fondo – spiega Calabresi – allora sì, mio padre è stato un eroe, ma per il resto era un uomo normale, con tutti i pregi e i difetti di un uomo normale. Essere un eroe in questo senso è un obiettivo raggiungibile, bisognare umanizzare il testimone perché possa prender vita».

Il pubblico è emozionato, alcuni si commuovono, una giovane signora, incinta di tre mesi, chiede a Calabresi perché in TV e sui giornali c’è molto più spazio per i terroristi che per le loro vittime e i famigliari delle vittime: ڲIl motivo è molto banale – risponde Calabresi – le storie dei terroristi fanno titoli più intriganti, la loro storia continua, entrano ed escono dal carcere, c’è sempre qualcosa di nuovo da raccontare. E’ molto più difficile, invece, raccontare una vedova».

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