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22 gennaio 2008

Dottorandi alla riscossa

Più di 11 mila firme sono state consegnate lo scorso 20 novembre al Ministro per l'Università e la Ricerca Fabio Mussi, a dimostrazione che la petizione “1000 euro al mese” lanciata dall'associazione dottorandi italiana (Adi) il 6 giugno 2006 ha smosso qualche coscienza.

La petizione chiede l'aumento del limite minimo della borsa di dottorato da 809 euro ad almeno 1000 euro mensili, chiede inoltre di abolire la possibilità del dottorato “gratuito” consentita dalla legge. L'Adi sottolinea come l'ammontare delle borse italiane non abbia paralleli all'estero e incoraggi perciò la famosa “fuga dei cervelli” e definisce il dottorato senza borsa deleterio per la qualità della formazione, visto che «da un ricercatore che non è pagato non si può esigere quell'impegno e quella dedizione sistematica che deve invece caratterizzare sempre la formazione alla ricerca».

In realtà almeno uno dei sostanziali cambiamenti richiesti dall'Adi è stato accolto dal parlamento ancora prima che la petizione arrivasse sul tavolo del Ministero. L'emendamento alla legge finanziaria firmato dal senatore Giuseppe Valditara, ordinario di diritto romano all'università di Torino, che prevede lo stanziamento di 40 milioni di euro all'anno per i prossimi tre anni, è stato approvato in via definitiva a fine dicembre. «L'aumento potrebbe essere intorno ai 140-150 euro mensili – afferma Chiara Manfredotti, socia Adi, un dottorato in scienze chimiche alle spalle e ora assegnista di ricerca – bisognerà attendere il decreto del ministero di cui per ora non risulta ci sia traccia. Lo stesso per capire se ci sarà copertura per le borse cofinanziate, quelle non pagate direttamente dal ministero dell'università». Per quanto riguarda invece l'eliminazione della figura del dottorando senza borsa bisognerà aspettare la riforma del dottorato, attualmente allo studio del Ministero dell'Università e della Ricerca.

Tutti contenti quindi? No. Per alcuni dottorandi, che pur riconoscono come positivi i risultati ottenuti, si deve fare molto di più: «L'università non può più essere la stessa di 10 anni fa – dice Davide Grasso, 27 anni, al suo primo anno di dottorato con borsa – non può continuare ad essere un residuo feudale. E quello che rimprovero all'Adi è di accettare questo sistema, agendo anch'essa secondo schemi corporativi, mentre in realtà esistono interessi comuni tra studenti, dottorandi, ricercatori. Dobbiamo tutti insieme cambiare il modo di essere università».
Secondo Davide non si può negare che «ogni dottorando cerchi di far carriera sulle spalle degli altri. Non c'è nessuna differenza tra il lavoro svolto da chi ha la borsa e da chi non ce l'ha, la differenza la fanno quelle collaborazioni col dipartimento che sono “in più” rispetto al lavoro di ricerca, come la correzione di bozze per le case editrici, l'organizzazione di convegni o la cura dei siti, ovvero le attività che “aprono la pista” ma che magari quelli senza borsa, a meno che non siano ricchi di famiglia, non hanno il tempo di svolgere».

Dello stesso parere Andrea Benino, 29 anni, che ha concluso il suo dottorato senza borsa l'ottobre scorso: «Avere o non avere la borsa non cambia la qualità del percorso, ma di sicuro cambia la percezione che ne ha lo studente. Se si accede a questo “stipendio” ci si può davvero dedicare anima e cuore alla ricerca, senza soldi invece si ritaglia il tempo per studiare come per un hobby». Per Andrea è sicuramente discutibile l'esistenza di dottorati senza borsa, vista la realtà dei posti limitati, ma «altrettanto contestabile è la restrizione dell'accesso all'ultimo stadio della formazione che, borsa o non borsa, non garantisce davvero di avere un futuro coerente con l'aura elitaria che si vuole dare al dottorato. Anche chi ha avuto la borsa per tre anni non ha alcuna garanzia di lungo termine».

Scoppierà in rete la nuova guerra enciclopedica?

Presto ci sarà una nuova enciclopedia online fondata, stavolta, sulla competizione tra i suoi redattori. Il nuovo progetto di Google, denominato “Knol”, è stato reso noto il 13 dicembre scorso nel blog ufficiale dell'azienda di Mountain View, California.

Immediato e inevitabile il confronto tra Knol e Wikipedia, la famosa enciclopedia libera nata nel 2001 che il 15 gennaio ha raggiunto i sette anni di attività e che conta più di 9 milioni di articoli.
«La motivazione di base dell'iniziativa Knol potrebbe essere legata alla “conquista della terza pagina” – spiega Andrea Crevola, docente di Web Design all'università di Torino – Google è un sistema a due pagine, la maschera di ricerca e il risultato, mancano link interni al sistema: più movimento all'interno di Google significa più ricchezza per l'azienda».
Il “gigante buono” del web pone però l'accento sull'importanza di diffondere la conoscenza, e nella presentazione del progetto spiega la propria posizione: «Crediamo che sapere chi scrive cosa aiuterà significativamente gli utenti a fare un migliore uso dei contenuti web». La verità verrà sicuramente a galla, concordano gli esperti del web: «La rete offre spazio a tutti gli esperimenti – spiega Giuseppe Granieri, saggista e consulente su innovazione e sociologia dei media – ma sopravvivono e vengono utilizzati solo quelli che trovano il consenso di una sufficiente massa critica di utenti».

Gli esperimenti Knol e Wikipedia divergono su alcuni punti salienti: mentre la seconda si basa sulla collaborazione tra gli utenti, in Knol ogni utente potrà pubblicare una “unità di conoscenza” in competizione con le altre. Inoltre in Knol ogni autore “ci metterà la faccia”, mostrando la propria identità e le eventuali credenziali.
Resterà il problema della certificazione della qualità spesso rimproverato a Wikipedia, ma questo, spiega Crevola, riguarda più in generale la rivoluzione del web: «Non c'entra che ci sia il bollino di Wikimedia o di Google, in ogni caso quello che ci si aspetta da queste media corporation, visto che vogliono dare forma alla cultura, è che si interessino non solo a questioni importanti per loro ma che assumano anche un ruolo etico. Ad esempio: devono inserire strumenti tecnici che permettano un controllo dal basso, e la scelta di certi strumenti piuttosto di altri incorpora sempre un modello di comportamento».
«A livello etico, sono scelte – ribadisce Granieri – a livello pratico la storia dimostra che laddove il processo non è equilibrato, gli utenti si allontanano dal servizio che stanno usando. Wikipedia interviene sui contenuti, ma con logiche e interventi trasparenti». Su Google, per ora, non si possono che fare ipotesi.

In ogni caso Giuseppe Granieri non crede che questi esperimenti possano essere ricondotti al concetto di enciclopedia “tradizionale”, visto che non è distribuita nella stessa ampiezza, è costosa, più lenta da consultare e non aggiornabile in tempo pressoché reale: «Abbiamo una grande infrastruttura di comunicazione, che può contenere e gestire una quantità di informazioni mai vista nella storia dell'uomo. Ci sono diversi strumenti, diversi tentativi e nessuno sarà mai onnicomprensivo. Ogni utente, per la grammatica della rete, sceglierà il metodo di ricerca e di accesso alle informazioni che più gli viene utile in un dato momento, tra tutti quelli disponibili. Che non si escludono tra loro. Si completano».

Diventa cruciale quindi l'educazione all'uso: ciò di cui più necessitano i giovani studenti di oggi, fa notare Crevola, sono le istruzioni per accedere a questa massa potenzialmente infinita. Capire come valutare, verificare e soprattutto mettere in relazione le nozioni, sono capacità che vanno coltivate. «Uno dei rischi di Knol – pone come esempio Crevola – potrebbe essere la possibilità che gli articoli, essendo gestiti da un unico utente, restino statici per molto tempo, a differenza degli articoli di Wikipedia».

Di Knol non si conoscono ancora tutti i dettagli, ma alcuni punti di forza come un'interfaccia standard sembrano essere già delineati. Resta da capire in che modo i lettori potranno commentare gli articoli: «Potrebbero inserire un sistema di feedback come quello di eBay – ipotizza Crevola – ma mentre per la compravendita di oggetti questo sistema è ottimo, potrà esserlo anche per la valutazione di temi come l'aborto, il creazionismo contro l'evoluzionismo o la pena di morte? Settori pericolosi per l'opinione pubblica come produrre conoscenza, acquisire informazioni personali sugli utenti, sono situazioni delicate e a volte al limite del lecito. L'atteggiamento etico assunto sarà fondamentale perché Google non veda intaccata la sua candida immagine di “gigante buono”».

Come per Linux contro Microsoft, insomma, diventerà forse più una questione di valore che di effettiva qualità del servizio.

16 gennaio 2008

Netscape è morto

Dopo 13 anni di onorato servizio e una causa vinta contro Microsoft per abuso di posizione dominante, Netscape sta per abbandonare la scena di Internet. America On Line (Aol), che lo aveva comprato nel 1998, ha deciso che dal primo febbraio smetterà di sviluppare il browser che aprì le porte al world wide web.

Passato dal 90% degli utenti degli anni '90 all’attuale 0,6%, Netscape sarà lasciato morire di morte naturale: senza aggiornamenti di protezione anche quel residuo 0,6% arriverà piano piano a zero. Resterà comunque attivo il download di Netscape 9, magari a titolo di conoscenza o di studio.
La storia di questo pioniere del web merita allora di essere ripercorsa.

In principio era Mosaic, primo browser grafico sviluppato al National Center for Supercomputing Applications. Era il 1993. Un anno più tardi, si può dire da una sua costola, fu creato Netscape. Il fondatore della Netscape Corporation era infatti Marc Andreessen, uno degli sviluppatori di Mosaic, che decise di utilizzarne le tecnologia per fini commerciali.
«Mosaic – spiega Cristina Gena, ricercatrice al dipartimento di informatica dell'Università di Torino – funzionava solo in ambiente Unix. Netscape fu invece il primo browser grafico ad alta diffusione commerciale sul quale vennero messi a punto linguaggi web largamente diffusi, come ad esempio Javascript».

Il compito di un browser web è quello di ricomporre graficamente l’insieme di codici e linee di comando. Più linguaggi può codificare un browser, più universale sarà il suo servizio. Può sembrare strano perciò che a decretare il declino di Netscape, leader dei browser web per tutta la seconda decade degli anni ’90, sia stato Internet Explorer, che fino alla versione 6.0 non si è sforzato più di tanto per aderire agli standard dettati dall'organismo internazionale competente (W3C). «In un mondo ideale – spiega Gena – tutti i browser dovrebbero comportarsi di conseguenza. In realtà gli sviluppatori sono costretti a scrivere codici diversi per i diversi browser». Il che significa maggiori costi di programmazione e gestione.

La guerra tra Microsoft e Netscape Corporation è cominciata con un certo ritardo, visto che all'inizio dell'era Internet Bill Gates non credeva che la rete sarebbe diventata un fenomeno mondiale. Quando se ne accorse iniziò il boicottaggio: « Microsoft non solo inserì come default il suo web browser nel sistema operativo – racconta Franco Sirovich, docente di informatica all’Università di Torino – ma fece di tutto per rendere complicato l'utilizzo di Netscape in Windows. Solo un esempio: con i modem a 56k, aprendo Explorer si apriva automaticamente l'interfaccia di connessione, con Netscape no. È chiaro che un utilizzatore base non andava a cercare nelle proprietà di connessione».

Netscape Corporation fece causa contro Microsoft, vinse e venne risarcita per 720 milioni di dollari. Ma la vittoria in tribunale non bastò, ormai Explorer si era diffuso insieme ai sistemi operativi Microsoft, monopolizzando il mercato dei browser e non solo. Per risollevare la propria sorte, Netscape rese libero il suo codice “sorgente”, ovvero l'insieme delle istruzioni che compongono il programma, aprendo la strada a browser open source come Firefox.
«Tuttavia, anche se era diventato libero – spiega Sirovich – Netscape continuò a pagare la sua storia di browser commerciale, mentre gli sviluppatori della Mozilla Foundation, che hanno creato i loro programmi fin da subito come open source, sono stati accolti con più fiducia dagli utenti».

Firefox oggi vanta una fetta di mercato pari al 20% degli utenti, mentre Microsoft continua a doversi difendere dalle accuse di abuso di posizione dominante. «Internet Explorer, inoltre – continua Sirovich – continua a peccare in sicurezza. Microsoft ha sempre fatto poco da questo punto di vista».
La morte di Netscape forse potrà essere riscattata.

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