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07 dicembre 2007

Una resex a Mangabal

«Nella foresta amazzonica lo spazio sembra infinito, ma di infinito non c’è nulla. Tranne l’avidità umana». È la conclusione di Claudia Apostolo, giornalista di Rai 3, dopo la sua esperienza a Mangabal, un’area della foresta amazzonica brasiliana grande all’incirca diecimila chilometri quadrati e abitata da un migliaio di persone che vivono in piccoli villaggi sulle rive del fiume.
A Mangabal Claudia si è trovata quasi per caso, guidata da un ricercatore dell’università di San Paolo, Mauricio Torres, che voleva mostrare a lei, ma soprattutto ad una telecamera italiana, cosa stava succedendo in quell’angolo dello stato del Parà, dove «l’appropriazione illegale del demanio pubblico, la deforestazione, la riduzione in schiavitù, l’intimidazione da parte dei latifondisti spalleggiati dalle autorità statali sono all’ordine del giorno, anche sotto il governo Lula», spiega la giornalista.

Lei e l’associazione di videoproduzioni Puntodoc erano lì, invitati dall’Ong torinese Mais, per documentare il progetto di cooperazione internazionale per lo sviluppo dell’agricoltura e dell’allevamento familiare chiamato Uirapurù, coordinato in Brasile da Luca Fanelli.
Durante un incontro sul tema del diritto alla terra e sulla difesa dalle grandi imprese, hanno conosciuto Mauricio Torres, che li ha guidati a Mangabal. Da questo viaggio fuori programma è nato il film documentario “A beiradeira e o grilador”, la donna del fiume e il ladro di terra, presentato a Cinemambiente lo scorso ottobre, a Torino.

«I riberinos, le popolazioni che vivono lungo i fiumi amazzonici, vivono con la foresta e la foresta vive con loro – racconta Claudia – è uno scrigno di biodiversità e una risorsa per il pianeta». Le popolazioni fluviali, e la foresta con loro, sono minacciati dai griladores, i ladri di terra. Latifondisti. Uno di questi, Lionel Babinski Marocchi, titolare della società Indussolo, reclama da 50 anni il possesso dell’area di Mangabal, grande, vale la pena ricordarlo, più o meno come l’Abruzzo. Negli anni ’70, infatti, la dittatura militare cedette enormi estensioni di territorio dando inizio ai programmi statali per l’occupazione dell’Amazzonia, descritta una “terra senza gente per gente senza terra”.
«Sradicare i nativi dalla loro terra contro la loro volontà – spiega la giornalista – significa deportarli. Senza sostentamento né legami perderanno il loro passato, e senza passato non potranno disegnare il loro futuro».

Il prezioso lavoro di ricerca di Maurìcio Torres e di Wilsea Figuereido, ha permesso di dimostrare, contro le pretese di Marocchi, che la popolazione di Mangabal vive nell’area da almeno 150 anni, e ha consentito al Ministério Publico (organismo federale che tutela le minoranze), e all’Ibama (isituto per l’ambiente e le fonti rinnovabili) di procedere all’istituzione di una ‘reserva extractivista’ (resex), unità di conservazione ambientale in cui le risorse forestali e fluviali vengono destinate alle popolazioni che ci abitano.
«Questa popolazione lotta per la propria sopravvivenza – spiega la giornalista Rai – la terra, per questa gente, non è un valore economico ma il luogo in cui vivono, dove seppelliscono i morti, dove educano i figli, dove si fanno la corte e si sposano». La resex è per loro come un’assicurazione sulla vita contro i grileros, i ladri di terra, i garimperos, che per estrarre l’oro avvelenano l’acqua, i madereiros, che abbattono la foresta, le grandi imprese industriali che saccheggiano le risorse dell’Amazzonia.

Il documentario si conclude con una Consulta Publica in cui i riberinos approvano, difronte a Felipe Fritz Braga, procuratore del Ministerio Publico di Santarem e a Nilson Viera, responsabile dell’Ibama del Parà, la costituzione della riserva. Tutti sono d’accordo manca solo la firma della Casa Civil, l’omologo della nostra presidenza del consiglio.
Questa firma manca ormai da un anno, gli atti sono fermi sulle scrivanie del ministero delle risorse minerarie perché in quelle terre ci sono aree di estrazione della bauxite ed è già in progetto una diga che dirotti il fiume di 20km, ci sono risorse tradizionali come il legname, servono pascoli e campi di soia che nutrano la zootecnia in Europa e in America.
Mauricio Torres è venuto a Torino, a Cinemambiente, per parlare coi giovani presenti alla proiezione del documentario. Per lui, Claudia Apostolo, Puntodoc e Mais la storia non può finire qui: «E’ difficile mettere un cartellino del prezzo – conclude la giornalista – non so dire quanto vale aiutare l’Amazzonia, ma sono convinta che siamo, inevitabilmente, tutti coinvolti. Questo è un piccolo esempio del conflitto ambientale che si sta moltiplicando e che esaspera il conflitto tra il dio mercato e la vita quotidiana».

Il primo passo sarà continuare a parlare di Amazzonia e degli italiani che ci lavorano e che credono nell’importanza dell’autodeterminazione dei popoli. A marzo e ad aprile si pensa ad un ciclo di lezioni e proiezioni di altri video del progetto Uirapurù. Infine si tenterà di coinvolgere maggiormente l’università per far sì che la storia di Mangabal non si cristallizzi nelle menti come un fatto episodico, ma diventi emblema di quanto accade in Brasile. Brasile che è, ricorda Claudia Apostolo, «primo partner economico dell’Italia».

06 dicembre 2007

Ci vediamo una settimana fa

Che cos'è dunque il tempo? Se nessuno me lo chiede, lo so; se voglio spiegarlo a chi me lo chiede, non lo so più.
Citazione d'obbligo di Sant'Agostino, che nel libro XI delle Confessioni esprime un cruccio non ancora superato: la difficoltà di rendere conto di quelle che vengono chiamate “comprensioni pre-teoriche”. Il concetto di tempo è una di queste. Ribadisce la professoressa Elisa Paganini, filosofa del linguaggio all'università di Milano: «Ogni volta che il filosofo cerca di spiegare con parole comuni il tempo, gli mancano inevitabilmente i termini, incappa in circoli viziosi, nascono paradossi».

Il “divenire” ad esempio, quel passare dall'essere passato, all'essere presente, all'essere futuro, come spiegarlo? Come spiegare che il povero gatto Tibbles, che alle 8 del mattino ha la coda, ma a mezzogiorno dopo un incidente non ce l'ha più, è lo stesso gatto? Traducendo queste situazioni nella logica modale, se ne ricava inevitabilmente una contraddizione.
«I 'quadridimensionalisti' – spiega Giuliano Torrengo, dottore di ricerca al Laboratorio di ontologia di Torino – risolvono il problema dicendo che ogni oggetto ha quattro dimensioni: una di queste è costituita dalle sue 'parti temporali'». Nessuna crisi d'identità dunque per il povero Tibbles: perdendo la coda ha solo variato la sua quarta dimensione.

«Risolvere tali questioni significa spiegare le nostre intuizioni e rendere conto del nostro linguaggio», continua la professoressa Paganini. Le nozioni temporali non sono immediate, si pensi ad esempio all'uso che fanno i bambini di termini come “domani” o “ieri”: per loro “ieri” può essere accaduto quattro giorni fa. Solo crescendo costruiranno lo schema temporale condiviso.

Se poi potessimo davvero viaggiare nel tempo? Dovremmo abituarci a frasi come “Ci vediamo una settimana fa”, oppure “è stata divertente la cena di dopodomani”. Chiunque abbia dimestichezza con la saga Zemeckiana di “Ritorno al futuro” troverà poi sufficientemente familiare il cosiddetto paradosso del nonno: un nipote torna indietro nel tempo e uccide il suo avo prima che possa avere una discendenza. Come può allora il nipote essere nato, aver viaggiato nel tempo, e aver ucciso suo nonno?
E' per evitare questo paradosso che Emmet 'Doc' Brown spiega a Marty che non deve mai farsi vedere da sé stesso, né intervenire nella vita dei suoi antenati. E lo stesso fa il professor Zapotec con Topolino e Pippo, instancabili viaggiatori nel tempo alla scoperta di misteri insoluti. I teorici della realtà di più mondi possibili, non lo troveranno invece paradossale, visto che per loro ogni evento produrrebbe un nuovo universo parallelo in cui la storia si evolve in maniera indipendente. Pippo resta però categorico: non vede come potrebbe alterare il passato con il suo viaggio, dato che il viaggio stesso è già accaduto. Altrimenti detto: la legge della causalità non può essere violata.

Questa “metafisica da poltrona” (la più comoda di cui il filosofo possa disporre, naturalmente) ha una sua ragion d'essere, giura Torrengo: «l'esperimento mentale, l'esplorazione concettuale di situazioni immaginarie è in grado di rivelare alcune delle caratteristiche della realtà cui apparteniamo, qui ed ora».

Se nella realtà, almeno così sembra, non dovremmo ancora preoccuparci dei viaggi nel tempo, potremo pur sempre parlare del tempo delle narrazioni. Il professor Ugo Volli, semiologo dell'Università di Torino, spiega che «noi umani facciamo fatica ad accettare un tempo ripetitivo, sempre uguale. Abbiamo bisogno di un tempo che abbia un senso, ovvero, che abbia sia un significato, sia una direzione».
«La tecnologia che possediamo per rendere il tempo meno omogeneo, sono le storie», continua il professore, «la musica ad esempio, produce una domanda, che è la tonalità, e si sviluppa cercando di dargli una risposta. Questa risposta è però costantemente rimandata, c'è sempre un'attesa verso la soluzione sulla tonica. Così è per la letteratura e per il cinema di genere: nei gialli sappiamo già che l'investigatore troverà l'assassino». Questa “struttura dell'attesa”, secondo Volli, è caratteristica di tutte le forme dell'intrattenimento della cultura europea.

Non ci resta quindi che ammazzare il tempo riguardandoci “Ritorno al futuro”.

17 novembre 2007

Ute fest - The Changeling

In The Changeling tutto è incostante, anche il pubblico. All’inizio gli spettatori provano pena per la povera vittima di un matrimonio combinato, ma nel corso della storia il loro sentimento cambia: da vittima a carnefice, Beatriz-Juana si trasforma e così il pensiero del pubblico su di lei. Per Walter Le Moli è un passaggio naturale: «Il pubblico sbaglia nel fidarsi, si affeziona ad una figura che finisce poi col disprezzare». Il passaggio visivo marcato dalle tre diverse attrici che la interpretano porta fisicamente in scena l’errore: «Beatriz è cambiata - si chiede lo spettatore - o sono io che ho visto male?». Innocente fanciulla, assassina, adultera. Beatriz è l’emblema di una società in cui tutti sono incostanti tranne, forse, Deflores, cortigiano che tutto esegue pur di avere una ricompensa. Uno spazio unico riempito da personaggi in perenne cambiamento, lo spettatore si perderebbe, confuso, se non fosse ancorato ad un unico elemento costante: il ritmo del testo. Karina Arutyunyan conclude così l’incontro: «Abbiamo seguito la regola del jazz: si può fare quello che si vuole solo all’interno di un ensemble dato».

pubblicato in Apart #9/07

30 ottobre 2007

Ute fest - Meeting Donnellan

«Ciò che è formidabile nel lavoro di Donnellan è che ci lascia vivere, la regia viene da noi». Andromaque è stato un lavoro di squadra, parola di attori. Tutti concordi nel ribadire l’assenza di un disegno prestabilito e di una smania di perfezione, i protagonisti della pièce di Racine hanno sottolineato alcuni degli insegnamenti del loro regista: «Non ripetete frasi ‘morte’, ma reinventate ogni giorno il vostro ruolo perché ogni volta il teatro sia vero», «Recitate come se aveste sbagliato copione». E così Ermione crede davvero che riuscirà ad avere Pirro, perché lei non conosce la fine della storia, vive nella speranza di ottenere ciò che vuole e allora, di scena in scena, spera, si illude, piange amara disillusione ma di nuovo, lotta perché ciò che desidera accada. La caratterizzazione di ogni personaggio è avvenuta per tappe, nessun copione già scritto né burattini al soldo del regista, ma un gruppo di attori messi nella condizione di trovare la propria personale strada per essere Andromaca, Ermione, Astianatte. In fondo, parola di Donnellan, «Non bisogna mai fidarsi del regista».

pubblicato su Apart #5/07

29 ottobre 2007

Ute fest - Meeting Lavia

Il fango come metafora dell’indifferenza, la camicia di forza come metafora della condizione umana. No. Non sono metafore quelle messe in scena da Gabriele Lavia, ma la realtà del suo teatro: «Il palcoscenico deve essere un sentiero storto e scosceso, il méthodos greco, un percorso per andare oltre». Lavia recita Il sogno di un uomo ridicolo di Dostoevskij da quando aveva 18 anni, ma ad ogni nuova rappresentazione sente il bisogno di rendersi la vita difficile; così la scena è stata a volte coperta di terra o fango, altre da piastrelle e sassi, corde d’acciaio, o si è trasformata nel cubo di una discoteca largo un metro e ottanta. La scenografia è una sciocchezza fondamentale: «Fango, sassi, corde, non servono a nulla, sono piccole tranquillità, piccoli make-up. Il problema vero è lo spazio scenico: costringere attori e spettatori ad essere “qui ed ora”, che non sono orologi e toponomastica, ma tempo e spazio». Il teatro si fa sempre sul palcoscenico, non è mai il teatro del regista, perché chi lo vede “guarda” ciò che accade, qui ed ora. Questo è il suo mistero.

pubblicato su Apart #4/07

27 ottobre 2007

Ute fest - La folle giornata (o il matrimonio di Figaro)

Far dialogare due tempi, superare il filtro mozartiano e mettere in scena un classico sconosciuto come La folle giornata o Il matrimonio di Figaro, per Claudio Longhi non è stato facile. Per riuscirci si è fatto aiutare proprio dalle arie di Mozart, che in scena facevano intuire quello che il libretto dapontiano ometteva. Un lavoro simile nel ‘900? Arancia meccanica. Il film cult di Kubrik è diventata allora la chiave di lettura del passaggio dal ‘700 al ‘900, perché è modello narrativo di una violenza inusitata e perché della musica di Purcel ha fatto un uso straordinario. Altro problema è stato trovare un marcatore di scena che identificasse servi e padroni. La scelta è ricaduta sulla recitazione, perché non potevano essere i costumi: «Csaba mi ha convinto che nel mondo di oggi la distinzione di classe non passa attraverso l’abbigliamento, chiunque può permettersi Prada, perlomeno taroccata. Poi Csaba avrebbe voluto andare oltre e portare sulla scena una sfilata di attori nudi, come in Prêt à porter di Altman. Ma non ho voluto spingermi a tanto». Radicalizzare per raggiungere lo spettatore sì, ma non troppo.

pubblicato su Apart #3/07

08 ottobre 2007

Anna Politkovskaja

Ci sono persone il cui cuore continua a pulsare anche quanto sono morte. E ci sono penne che continuano a scrivere anche quando il loro padrone non può più tenerle in mano. Almeno finché resterà vivo il suo ricordo.
Oggi il ricordo di Anna Politkovskaja, a Mosca, è vivo più che mai: il sette ottobre candele accese davanti alla sue foto hanno illuminato piazza Bolotnaya di desiderio di libertà.

Anna, giornalista russa famosa in tutto il mondo per i suoi reportage sugli orrori della guerra in Cecenia e gli abusi compiuti dalle truppe federali, fu uccisa sulla soglia di casa sua alle 16 del sette ottobre 2006. Scriveva per il quotidiano dell'opposizione Novaya Gazeta e alle vicende del conflitto ceceno si era appassionata alla fine degli anni '90, e non solo come cronista: nel dicembre del 1999 fu lei a organizzare, sotto una pioggia di bombe, l'evacuazione dell'ospizio di Grozny, mettendo in salvo 89 anziani. Avrebbe dovuto pubblicare, se quattro colpi di pistola non avessero fermato il suo cuore e la sua penna, i risultati di un'inchiesta sulle torture perpetrate in Cecenia dai russi, l'ultimo reportage di una carriera giornalistica sempre all'insegna del coraggio, della verità, della lotta per i diritti e la dignità umani, per la libertà e la democrazia.


Anna è stata uccisa il giorno del cinquantaquattresimo compleanno di Vladimir Putin, e per Andrej Mironov, intellettuale e amico fraterno della giornalista, questo significa che ad ogni suo futuro anniversario il presidente della Federazione Russa si sveglierà con il nome di Anna a martellargli la testa.


Una donna che non sposava partito politico è ora l'anima dei più forti gruppo di opposizione del Cremlino. Anna è ormai un simbolo, sinonimo di coraggio e indipendenza. In coincidenza con l’anniversario della sua morte a Mosca attivisti impegnati nella difesa dei diritti umani, giornalisti e militanti di opposizione hanno organizzato diverse manifestazioni. E ancora da Mosca a Berlino, a Parigi, ai cortei nelle varie capitali europee hanno partecipato non solo le associazioni, ma anche gente comune in segno di solidarietà. E ancora documentari, incontri e convegni in Italia e all'estero. Sperando che il 7 ottobre diventi un'importante occasione per non dimenticare che coraggio e indipendenza sono moneta preziosa.

14 maggio 2007

Ligabue chiude la Fiera del libro 2007


Lunedì 14 maggio, chiusura della Fiera del Libro, sala gialla gremita. Si spengono le luci e alla prima nota di Certe notti, partita dal video proiettato in sala, si crea un effetto concerto: ragazzi e ragazze urlano e salgono sulle sedie, fanno ondeggiare le macchinette fotografiche come fossero accendini. Un attimo di calma, tutti si risiedono, ma all’ingresso di Ligabue di nuovo standing ovation: stavolta tutta la sala si alza in piedi.

La prima parte dell’incontro è un dialogo tra Vincenzo Mollica e Ligabue, una sorta di intervista-presentazione del cofanetto Parole e canzoni edito da Einaudi, il tredicesimo di una serie iniziata con le musiche e le parole di De André. Una novità anche per Ligabue, che mai prima d’ora aveva pubblicato i testi delle sue canzoni: «È importante considerare la canzone come un tutt’uno – spiega il cantante emiliano – ricordo Bob Dylan che sceglieva quasi sempre le parole per il suono che avevano. Vedere le parole senza la musica mi ha spiazzato, ma mi ha anche fatto riscoprire, in retrospettiva, il mio lavoro: nei primi quattro, cinque anni ho sempre raccontato me stesso attraverso le storie di altri, al massimo usavo un cauto “noi”. Successivamente, invece, ho iniziato ad utilizzare anche la prima persona». E in questa opera fatta per Einaudi Ligabue ha deciso di parlare anche del suo mestiere composito di cantante, regista e scrittore.

Mollica ricorda a Ligabue che Vincenzo Cerami lo ha definito un “gaucho”: «Mi ha definito anche cantautore della solitudine – risponde Ligabue – ma io non parlo di solitudine come valore assoluto». Il cantante emiliano parla poi della propria “incoscienza” e la definisce un bene prezioso per riuscire a fare un lavoro come il suo. Precisa anche quanto sia importante non trasferirla negli altri: «Parlo dell’incoscienza nei confronti delle aspettative – spiega – del futuro. Io in realtà sono timido e mi faccio tenerezza, quella che vedete sul palco è una finta sfacciataggine». Cominciano poi le domande del pubblico, alle quali Ligabue ha concesso con gentilezza e disponibilità quasi un’ora.

Che valore hanno per te le canzoni?
«Sono un valore inestimabile. Ogni brano poi ha un effetto diverso da persona a persona. Poche cose esaltano tanto quanto una canzone che ad un certo momento ti prende e non ti lascia più. Ci sono molti pezzi che potrei ascoltare anche mille volte senza stancarmi, tra queste posso citarvi Where the streets have no name degli U2, Born to run di Springsteen e Like a rolling stone di Dylan».

Come sei finito sul palco?
«È stata una scommessa con Claudio Maioli, il mio manager. Un giorno mi ha detto che non sarei mai stato capace di fare un concerto rock e l’ho presa come una sfida. Il primo lo feci nel febbraio dell’87 e non ho mai capito perché, se con tre persone sono tanto timido da non saper parlare, davanti alla folla invece posso fare tutto quello che sapete».

Non ti viene mai voglia di tornare allo stile dei tuoi primi album?
«L’incoscienza quando la perdi la perdi, sono ancora incosciente su altro, ma non nello scrivere canzoni. Oggi devo misurarmi con il senso del dovere, con quello che credo che gli altri vogliano da me. Umanamente poi sono diverso: anche questo implica il raccontare una cosa piuttosto che un’altra».

Nel 1993 hai scritto A che ora è la fine del mondo?: tredici anni dopo, a che ora è?
«Quella canzone è forse più attuale oggi. In realtà volevo solo fare dell’ironia sulla TV: mi chiedevo cosa succederebbe se si sapesse con un anticipo di 48 ore che il mondo finirà. Si farebbe davvero quello che altrimenti non si farebbe mai, oppure si guarderebbe la diretta di Emilio Fede?».

Convivendo con una disabilità mi riconosco molto ne Il giorno di dolore che uno ha. Tu in quale canzone ti riconosci di più?
«Il giorno di dolore che uno ha l’ho scritta dopo la “sentenza di morte” annunciata dai medici ad una persona a me molto cara, mi emoziona ricordarlo e sono felice che questo testo possa in qualche modo “sollevare” anche qualcun altro. Per quanto mi riguarda non c’è una canzone in cui mi riconosco di più. Dentro ad ogni album ci stanno undici brani che sono la selezione di almeno trenta canzoni. Anche quelle che non passano mai alla radio hanno la capacità di rappresentarmi, perché un artista quando crea fa sempre un autoritratto, dà forma ad un bisogno espressivo. Però posso dirvi che c’è una canzone che per me è come un mantra: Leggero».

Quale canzone invece ritieni sia sbagliata?
«Una canzone che mi ha fatto soffrire molto, nel senso che credo sia una canzone “sbagliata” anche se poi ha avuto un successo inaspettato, è stata Una vita da mediano».

Il tuo primo concerto fuori dall’Emilia, come l’hai vissuto?
«È stato cruciale. Una festa della birra: salsiccia e birra 10.000 lire, la prima esibizione che non facevo davanti a degli amici. La tenda era piena di persone che non conoscevo ma che sapevano le mie canzoni meglio di me, mi fecero capire che fare concerti comporta anche responsabilità».

Quali sono i tuoi punti di arrivo?
«Non me ne sono mai posti. Ho fatto anche un film, che non ci sta in un cantante rock. È capitato, in realtà non avevo spinto in quella direzione. Ho scelto di raccontare quella storia perché se non l’avessi fatto mi sarei sentito un coglione per il resto della mia vita. Credo che non ci si possa dare dei punti di arrivo, ma se volete sapere il prossimo obiettivo posso dirvi che in questo periodo mi sto dedicando moltissimo alla musica, mi sto proprio impegnando molto».

Restando nel tema della fiera, quel libro metteresti al confino e quale invece porteresti al confine con te?
«Ci sono vari libri che non mi sono piaciuti, ma non mi permetterei di impedire che altri li leggessero. Uno dei libri che mi sono piaciuti di più è stato invece Sulla strada di Kerouac».

Come fai ad essere così umile?
«Non posso dirlo io. Ma mi sento fortunato nel poter fare qualcosa che mi fa stare bene e che fa stare bene qualcun altro».

Sai resistere alla tentazione di scaricare canzoni da internet?
«Sì».

Che differenza c’è tra lo scrivere canzoni e lo scrivere poesie?
«Le parole che usi in una canzone devono essere capaci di suonare all’interno di una struttura che a sua volta deve suonare. Ancora di più nel pop-rock questo è molto importante. La canzone nasce come riduzione del melodramma, perciò se non è chiara è fallita. Una poesia invece è il contrario: se si capisce immediatamente forse è sbagliata».

Ho messo via, quando l’hai scritta?
«Poco dopo i 30, appena sposato, da poco aveva cominciato a fare il cantante per mestiere e mi sono trovato a dover fare i conti col crescere. Mi scontro sempre col desiderio di restare piccolo, ma il quotidiano ti impone di fare i conti col diventare adulto: Ho messo via parla di questo. Ho perso le parole invece è stata scritta apposta per Radiofreccia, perché non c’è altra frase che possa esprimere la morte per overdose, di cocaina e d’amore, di un ventenne».

È più facile esprimersi attraverso le canzoni o attraverso i film?
«Fare un film è mentalmente più faticoso. Non avevo mai frequentato dei set e per capire il linguaggio dei film ho dovuto “smontare” tutti quelli che amavo di più per capirne la grammatica. La difficoltà di fare un film sta nel progettare l’emozione che poi dovrà essere riprodotta da altri. Poi dal punto psicologico non è stato facile per un cantante dirigere degli attori».

Si può dividere la vita artistica dalla vita privata?
«La mia realtà è fatta sia della vita pubblica che della vita privata, io ci vivo dentro, non vedo separazioni. Sta al singolo artista scegliere se accettarlo o no».

Cos’è per te la famiglia e che senso le dai?
«Credo sia un'istituzione - anche se è una parola bruttissima - necessaria e che auguro a tutti. Io ne ho avuta una, l’ho sciolta e poi ne ho creata un’altra. Ho visto anche gli effetti della mia famiglia su di me, credo di essere uno dei pochi cantanti rock che non hanno genitori alcolizzati: i miei sono stati fantastici, forse anche per questo sono fuori schema rocker».

Sei sempre stato soddisfatto della tua vita?
«La vita è senza dubbio il più bel dono che abbiamo ricevuto. Non bisogna sprecarla ed è importante che ognuno sappia ascoltare il bisogno di fare che ha dentro di sé».

[domanda di un bambino] Come faccio a cantare a scuola se mi vergogno?
«Chiudi gli occhi, immagina di essere in uno stadio e vai».

10 maggio 2007

Spingendo la notte più in là

Se si scrive una storia personale non è facile essere obbiettivi. Ma se si è anche giornalisti, è un dovere esserlo? Secondo Mario Calabresi, che al Café letterario della Fiera del Libro di Torino ha presentato il suo libro Spingendo la notte più in là (edito da Mondadori), «in una storia personale non si può essere obiettivi, se lo si fosse non si potrebbe raccontarla. Esponendo il proprio punto di vista, però, è necessario restare aderenti alla realtà, bisogna asciugare il racconto ed essere il più semplice, il più chiaro, il più lineare e il più vero possibile. Bisogna restituire la freschezza del punto di vista. Il valore sta nel mostrare un'esperienza, perché il lettore possa farne tesoro».



“Show & tell”, mostra e racconta, è l'insegnamento della Columbia University. Anche Mario Calabresi ha voluto mostrare il percorso del dolore e come si può provare ad uscirne: «Mia madre – racconta Calabresi – aveva 25 anni quando mio padre è stato ucciso, e ha deciso di scommettere sulla vita, ha “spinto la notte più in là"».

Nello spiegare com’è nato il suo libro, Mario Calabresi, racconta che il bisogno privato si è incrociato con l’esigenza pubblica. Il dibattito nato dopo l’elezione di D’Elia,
è stato il fatto scatenante che ha fatto sorgere un'insofferenza crescente. La cosa particolare non è tanto che un ex-terrorista sia stato eletto in Parlamento («se è possibile per legge, è giusto», precisa Calabresi), ma il dibattito che ne è seguito: «Il morto ucciso da D'Elia è stato completamente assente da questo dibattito, gli interlocutori erano gli ex-terroristi e la politica. In Italia non ci si è fatti carico, ma si è messo da parte, non si sono fatti i conti con la violenza che ha fatto parte di una generazione. Nel dibattito politico si sono tagliate fuori le conseguenze dei gesti terroristi, è per questo che ho ritenuto che valesse la pena di raccontare, di mostrare».

«Non ho aspettato che fossero altri a scrivere – continua Calabresi – era il momento di mettere parte della mia vita in un'opera giornalistica. Nel libro racconto gli ultimi mesi di vita di mio padre e il periodo subito successivo». Secondo Calabresi la memoria, per non essere “burocratica”, deve raccontare la vita vera. Nelle scuole ad esempio si dovrebbero ricostruire i personaggi, farli tornare in vita attraverso racconti che non siano troppo lontani dai ragazzi. «Se “eroe” è qualcuno che fa il suo lavoro con passione fino in fondo – spiega Calabresi – allora sì, mio padre è stato un eroe, ma per il resto era un uomo normale, con tutti i pregi e i difetti di un uomo normale. Essere un eroe in questo senso è un obiettivo raggiungibile, bisognare umanizzare il testimone perché possa prender vita».

Il pubblico è emozionato, alcuni si commuovono, una giovane signora, incinta di tre mesi, chiede a Calabresi perché in TV e sui giornali c’è molto più spazio per i terroristi che per le loro vittime e i famigliari delle vittime: ڲIl motivo è molto banale – risponde Calabresi – le storie dei terroristi fanno titoli più intriganti, la loro storia continua, entrano ed escono dal carcere, c’è sempre qualcosa di nuovo da raccontare. E’ molto più difficile, invece, raccontare una vedova».

20 aprile 2007

Ambiente: piccoli gesti dal Burkina al Piemonte

Nelle case di Gourcy, nel Burkina Faso, la sensibilità verso i temi dell’ambiente arriva grazie al porta a porta e alla posta, e l’Italia dovrebbe fare lo stesso. Ne è convinto il sindaco della città africana, Dominique Ouedraogo (nella foto), intervenuto in occasione della presentazione del progetto “Vado al minimo”, lanciato dall’omonima associazione con l’intento di suggerire azioni pratiche per l’ambiente.

Il Burkina Faso conta quasi 8 milioni di abitanti e la città di Gourcy non è poi così piccola: i residenti del centro sono 22.000 e se si contano i villaggi limitrofi dislocati nella savana si arriva a circa 80.000. Gourcy è gemellata con Grugliasco ed è per questo che Dominique Ouedraogo è stato invitato a prendere parte alla conferenza stampa di presentazione di “Vado al minimo” accanto al presidente dell’associazione, Fabrizio Zandonatti, all’assessore all’Ambiente della Regione Piemonte, Nicola De Ruggiero, e al suo collega della Provincia, Dorino Piras.

Il progetto “Vado al minimo” avrà una durata triennale ed è nato con l’intento di suggerire uno stile di vita più sostenibile e di indicare le piccole azioni quotidiane utili e praticabili da subito, coinvolgendo un target quanto più possibile allargato, in modo che tutti possano dare il proprio contributo. “L’aggettivo minimo è quantificabile – afferma l’assessore Dorino Piras – si tratta dello sviluppo sostenibile, ovvero quello che permetterà a chi viene dopo di noi di andare comunque”.

“Gli aderenti al progetto devono possedere determinati requisiti, perché per poter dire le cose è necessario essere credibili”, sostiene in apertura all’incontro il presidente dell’associazione Fabrizio Zandonatti. E sull’importanza di essere coerenti intervengono anche gli altri membri del comitato tecnico scientifico, Ernesto Olivero (Sermig), Luca Mercalli(Società metereologica italiana), e Piero Bianucci, giornalista scientifico de La Stampa.

Proprio Piero Bianucci ha insistito sull’importanza di ritrovare sobrietà: “è necessario porsi obiettivi possibili, perché cercare quelli impossibili è un alibi troppo comodo”. Mettere in atto piccoli gesti in favore dell’ambiente è realistico, ha aggiunto Bianucci: “il punto di partenza è l’agire delle persone, non degli individui”.

Spegnere gli apparecchi in stand-by ad esempio, è un piccolo inizio, ma il risparmio energetico garantito non sarà indifferente; allo stesso modo alle conferenze, suggerisce l’assessore Nicola De Ruggiero, si mettano brocche e bicchieri di vetro, “a cosa servono tante bottigliette di plastica personalizzate?”.

Gli assessori si sono trovati concordi nella fiducia verso i giovani, molto più sensibili degli adulti verso l’ambiente, ma è importante non dare nulla per scontato e cominciare dando l’esempio. “Vado al minimo” ci invita ad adottare uno stile di vita più sobrio attraverso scelte concrete, quotidiane e praticabili da subito.

Mentre ci laviamo i denti o ci facciamo lo shampoo, lo chiudiamo il rubinetto?

23 marzo 2007

Non possumus pericolosi

“I dogmi non devono essere fatti valere come tali, altrimenti le regole della democrazia si inceppano”. E’ il fulcro dell’intervento che Gustavo Zagrebelsky, presidente emerito della Corte costituzionale, ha tenuto mercoledì 21 marzo presso il Salone dell’Unione culturale di Torino.

Gustavo Zagrebelsky, che è anche docente di Giustizia costituzionale all’Università di Torino, è intervenuto sul tema Non Possumus: la Chiesa divide la società?. Con lui don Ermis Segatti, docente di Storia del Cristianesimo alla Facoltà teologica di Torino e referente per la cultura e l'università della diocesi di Torino. Ha moderato il dibattito Ugo Perone, professore di Filosofia morale all'Università del Piemonte orientale.

Il Presidente emerito della Corte costituzionale ha sottolineato come il non possumus, l'editoriale recentemente pubblicato dall'Avvenire, organo ufficiale della CEI, “inciti alla disobbedienza civile dei cristiani”. Non all’obiezione di coscienza dunque, ma alla disobbedienza alla legge comune.

Secondo Zagrebelsky “quando si arriva ad incitare ad assumersi le proprie responsabilità nel non applicare la legge quando la si ritiene contraria ai dettami della natura, bisogna constatare che non c’è più il dialogo necessario alla convivenza costruttiva”.

Il costituzionalista tiene a precisare che “quando si parla di Chiesa, purtroppo, si semplifica troppo. La Chiesa è per fortuna fatta di tante cose”, e proprio per questo invita il mondo cattolico che non si riconosce nelle posizioni più radicali della Chiesa “a non tacere e venire fuori con una voce più chiara”.

Gustavo Zagrebelsky non risparmia nemmeno il mondo laico, che è anzi ciò che lo preoccupa di più: “sarebbe bene che anche dalla parte dei non credenti in una fede religiosa, si manifestasse l’intento a riconoscere, dal punto di vista del non credente, l’importanza straordinaria del mantenimento della cultura cristiana come fattore costitutivo della nostra società”. Il timore è che dopo il non possumus cattolico si manifesti anche un non possumus laico per difendere determinate posizioni.

La chiave per evitare ogni vincolo per i comportamenti delle persone, è il mantenimento di uno spazio di dialogo che garantisca il funzionamento delle istituzioni democratiche. “Le istituzioni democratiche, afferma Zagrebelsky, devono rispettare una posizione di neutralità tra le posizioni sostanziali che vivono nella società in modo che tutte possano vivere e possano manifestarsi”.

06 marzo 2007

Open source e software libero

Un mondo libero e stimolante. Questa è l’idea che ci si fa dell’open source e del software libero parlando con Sergio Margarita, direttore del LIASES (Laboratorio di Informatica Applicata alle Scienze Economiche e Sociali) dell’Università di Torino.

Prima di tutto una precisazione: «Il software libero prevede alcune libertà come ad esempio l’utilizzo, la possibilità di modificarlo per meglio adattarlo alle proprie esigenze, la possibilità di ridistribuirlo adottando la stessa licenza. Open source è un’etichetta diversa che prende il nome nel “sorgente aperto”, ovvero nella possibilità da parte di chi usa il programma di conoscere le istruzioni scritte dal programmatore. Si può dire che i software liberi sono più definiti sulla libertà, gli open source sulla tecnologia».

Open source quindi non è sinonimo di software libero, anche se può esserlo, e non è sinonimo di software gratuito. «C’è un po’ questo malinteso – spiega il Prof. Margarita – per cui se il software è libero o open source allora è sicuramente gratuito. In realtà questi software potrebbero anche essere venduti a pagamento, ma non potrebbero mai essere ridistribuiti in una versione “chiusa”, che non possa essere modificata o di cui non si conoscano i sorgenti. Quello che conta è la libertà, non la gratuità».

Oggi esistono programmi open source di eccezionale qualità. Per fare alcuni nomi tra i più famosi ricordiamo Apache (per i server) e OpenOffice.org, la più famosa e valida alternativa a Microsoft Office. Spiega il direttore del Liases: «Apache è decisamente superiore a tutti gli equivalenti commerciali, lo prova la sua presenza sull’80% dei server. Dal lato utente abbiamo invece OpenOffice.org, un insieme di programmi per l’ufficio di qualità decisamente comparabile a Microsoft Office». Anche la posta via web è un esempio di software libero, si vedano SendMail o Qmail.

Sergio Margarita ricorda inoltre che in Italia abbiamo una percezione diversa rispetto ad altri Paesi. «In Italia l’open source e i software liberi vengono visti come qualcosa che non si paga e si risparmia sulla licenza. Punto. Tant’è che da noi si consuma molto software libero ma se ne produce pochissimo. Si attinge a questa manna gratuita ma non si contribuisce ad alimentare il meccanismo. Negli USA o in Francia invece, in certe realtà, c’è la precisa volontà di produrre questi software. Anche Ibm, solo per fare un esempio, produce software liberi e li mette a disposizione di tutti».

Soluzioni “open” e soluzioni “proprietarie”: oggi se ne parla spesso in termini di “guerra di religione”, ricorda il Prof. Margarita, ma non si dovrebbe. «La presenza di entrambe queste realtà è stimolante per la competizione e quindi per la crescita della tecnologia. L’ultimo ambiente grafico di linux è uguale, come funzionalità, agli ambienti grafici di Windows, e già in precedenza faceva quello che oggi fa Windows Vista. Lo “scambio reciproco di esperienze”, se così vogliamo chiamarlo, esiste di sicuro». Un altro esempio sono le nuove funzionalità di Explorer 7, che riprendono per certi versanti Mozilla Firefox (il più diffuso browser web open source).

Perché allora i software liberi e gli open source non si diffondono velocemente? «Se si partisse da zero sicuramente sarebbe più facile fare delle scelte oggettive, ma quando si parte da una struttura già informatizzata la rigidità al cambiamento è molto forte. E’ una questione di mentalità e di una gestione dell’informatica che non è solo tecnica ma anche politica. A volte non si ha voglia di affrontare un processo di cambiamento molto impegnativo. Il metodo giusto, per andare nella direzione del software libero e dell’open source, è avviare un processo lento di migrazione, così come abbiamo fatto al Liases».

Al Liases sono presenti computer con il doppio sistema operativo e gli studenti possono far partire windows o linux a scelta. L’idea del Liases è di agire a 360 gradi: corsi di formazione sul tema dell’open source e didattica per l’esame di informatica fatta su programmi liberi. Il Liases rilascia anche la patente europea del computer (ECDL) e da tre anni è attrezzato per rilasciare le certificazioni per programmi liberi.

In cantiere c’è anche l’idea di far partire, nei prossimi mesi, un progetto per tutti gli studenti dell’università sul tema dell’ECDL open source. Ma se ci fosse qualcuno impaziente di testare questo mondo, ecco alcuni suggerimenti del Prof. Margarita: «Cominciate con gli applicativi liberi, Firefox, Thunderbird, OpenOffice.org, poi valutate il passo successivo: usare linux sul pc. Prima con un cd live, un ambiente linux completo che però non modifica né installa nulla sul pc. Poi, se vi piace e vi sentite pronti, riducete lo spazio dedicato a windows e installate in concomitanza linux. Ad ogni avvio potrete scegliere quale sistema usare».
Buona libertà a tutti.

10 febbraio 2007

Fiat punta sul metano

Rinaldo Rinolfi, responsabile del Powertrain Research & Technology di Fiat, fisico alla guida della ricerca dell’azienda piemontese dal 1987, racconta che sui motori ecosostenibili Fiat fa ricerca dagli anni ’70. Sono proprio le esigenze ambientali quelle che hanno spinto a fare ricerche sui motori, e queste esigenze diventano importanti anche per la competitività delle imprese.

L’intervento di Rinolfi si è inserito all’interno del convegno “Cambiare motori, ma soprattutto abitudini” svoltosi oggi presso la sala incontri della Regione Piemonte, organizzato da Legambiente e che ha visto succedersi sul palco, oltre a Rinolfi, Vanda Bonardo, Giorgio Airaudo, Francesco Garibaldo, Stefano Raffa, Marco Martuzzi, Mario Zambrini. All’unisono, Legambiente, sindacati dei metalmeccanici e rappresentanti delle industrie automobilistiche si sono mostrati tutti d’accordo sulla necessità di attuare una svolta tecnologica che possa risolvere i problemi ambientali.

In particolare Fiat, ha raccontato Rinolfi, ha lavorato ciclicamente sul motore elettrico, tra il ’70 e l’80 e tra il ’90 e il 2000, ma ciò che non si riesce a superare è il difetto fondamentale di questa tecnologia: l’autonomia ridotta e i tempi di ricarica lunghi.

Per quanto riguarda poi i motori ibridi non è vero che con questi si riducono le emissioni nocive, perché le emissioni finali dipendono dal livello di emissioni del motore di partenza. Il metano invece produce un decimo di emissioni nocive rispetto ad un veicolo Euro 5 o Euro 6.

L’unica soluzione percorribile è per Rinolfi proprio il metano: la molecola più semplice tra tutti gli idrocarburi e anche la più stabile. “Abbiamo riserve di metano per i prossimi 100 anni, e la distribuzione geopolitica della risorsa è abbastanza rassicurante, Putin permettendo”. Il metano ha anche altri vantaggi: ha costi di produzione e trasporto infinitamente minori rispetto alla benzina e al gasolio, e per l’Italia si tratterebbe di una tecnologia nazionale, visto che è l’unico carburante che abbiamo.

Per quanto riguarda la tecnologia ad idrogeno, invece, Rinolfi si è posto da un punto di vista molto realistico: “I motori ad idrogeno promossi ad esempio da BMW sono solo scenografie, miraggi. Sono tecnicamente improducibili su vasta scala, hanno costi esorbitanti e soprattutto prevedono un serbatoio di idrogeno liquido”. L’idrogeno fonde ad una temperatura di 17° Kelvin, ovvero molto prossima allo zero assoluto – spiega Rinolfi – è estremamente difficile impedire che ritorni allo stato solido.

Mentre in America si parla molto di idrogeno e lo si prospetta come una realtà imminente, pur non facendo nulla di veramente concreto per sviluppare questa tecnologia, secondo Rinolfi investire nel motore a metano è un investimento sicuro e lungimirante, perché non chiuderebbe comunque le porte all’idrogeno. I motori che funzionano a metano potranno infatti funzionare anche ad idrogeno, e questo permetterà di miscelare progressivamente le due sostanze. “La realtà è che oggi l’idrogeno non c’è”, conclude con fermezza Rinolfi.

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