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17 aprile 2008

Come si fa un webmagazine

"Artigrafie" è il nuovo web magazine che parla dell’arte in ogni sua forma ed espressione. Ideato da quattro giovani torinesi, il progetto è stato possibile grazie al lavoro sinergico di una ventina di amici uniti da questa passione comune.

«Artigrafie è un magazine online a metà strada tra il sito e il blog», spiega Elena, una delle quattro ideatrici che, con Marta, Ersilia e Sara, una sera davanti ad un drink, ha avuto l’idea di partire con questa nuova avventura del web.

Progetto senza fini di lucro e ambizioso, visto che si ispira nientemeno che a Kant: «Bè, certo, Kant è un nome grosso – confessa Elena – però siamo davvero convinti che quanto dice nella critica del giudizio sia profondamente vero: quando formuliamo un giudizio di gusto non ci immaginiamo soli, ma pensiamo ad un’umanità disposta a condividere la nostra valutazione».

"Artigrafie" conta così quattro sezioni. La prima, Orizzonti, raccoglie i testi che raccontino punti di vista inediti sull’arte. Oasi sperimenta la scrittura creativa. Scoperte è uno spazio-vetrina per creazioni da condividere orizzontalmente (peer production), Agorà, infine, è uno spazio aperto a commenti e confronti.
Chiunque può inviare materiale e contribuire allo sviluppo del magazine, l’unica clausola è accettare di pubblicare sotto la stessa licenza Creative Commons scelta dal sito.

«Artigrafie è una redazione aperta, sia al suo interno che verso l’esterno: tutte le idee vengono discusse, e quelle buone vengono certamente accolte – racconta Alberto, uno dei redattori – Tutto è organizzato da giovani appassionati ma si lavora professionalmente, c’è serietà sia durante le riunioni di redazione che nel rispetto dei tempi di consegna».

Le sezioni sono legate tra loro da un fil rouge tematico: per il primo numero, online dal 18 marzo, l’ispirazione è venuta dalla "giostra", per il prossimo, invece, il tema conduttore sarà "scacco al re".

www.artigrafie.it

Simulare metropoli in 4D

Rendere visibile l’invisibile è la missione del LAQ-TIP, il laboratorio di alta qualità per la progettazione territoriale integrata del Politecnico di Torino. Il LAQ crea rappresentazioni del territorio ed elabora progetti e scenari per la città, e non solo, del futuro.

«Per prefigurare i possibili futuri di una città o di un territorio è fondamentale, prima di tutto, analizzare l’esistente – spiega Luca Caneparo, direttore tecnico del Laboratorio – non solo dal punto di vista degli spazi fisici, ma anche da quello della densità urbana in una determinata ora». Così la quarta dimensione esplorata dagli esperti del laboratorio, ovvero il tempo, prende la forma di curve che mutano in altezza e in intensità di colore a seconda dell’ora della giornata: «Rendere visibile anche come le porzioni della città vivono nell’arco delle ventiquattrore – spiega Caneparo – significa capire quali di esse sono a rischio criminalità o desertificazione».

L’analisi di quella che viene chiamata "mixité" consente appunto di capire quale sia il grado di multifunzionalità di un dato edificio o di una data area, e questo permette di progettare conseguentemente spazi vivibili per chi già abita in quella zona, per chi ci lavora o per chi vi transita. Tenere conto di queste variabili significa favorire la vita di relazione, la fruizione di un quartiere in condizioni di sicurezza, l’interazione e lo scambio fra gli spazi privati e quelli pubblici.
«Lo sviluppo di una città e di un territorio – continua Caneparo – è frutto di fenomeni estremamente complessi, di variabili incognite che rendono ardua la progettazione di un qualsiasi scenario futuro, che dipende, in fin dei conti, dalla decisione di esseri umani in un determinato momento, e a conoscenza di determinate variabili».

Ma proprio qui sta il punto: il momento successivo all’analisi, ovvero la simulazione, fa vedere ai cittadini uno o più futuri possibili, e questo permette ai singoli individui di pensare concretamente alle conseguenze di determinate scelte, «perché gli esseri umani si muovono sulla base di aspettative», conclude Caneparo.
Dietro le quinte la simulazione della realtà virtuale avviene grazie ad un cluster computer ad alte prestazioni di calcolo, ovvero grazie ad una serie di workstation che lavorano in sincronizzazione per elaborare dati. Nella realtà virtuale, le immagini non sono calcolate in precedenza ma vengono generate in tempo reale. Tutto il sistema di calcolo è quindi collegato in fibra ottica e permette agli "spettatori", muniti di appositi occhiali stereoscopici, di godere appieno della tridimensionalità di uno dei teatri virtuali più grandi d’Europa. È possibile ottenere una visione tridimensionale, infatti, creando un’immagine per ciascun occhio, generate secondo la distanza oculare. Tramite gli occhiali stereoscopici, il cervello interpreta le due immagini, le "fonde" in una scena tridimensionale, di cui percepisce la profondità. Per proiettare gli scenari futuri, il LAQ dispone di sei coppie di proiettori.

«La realtà virtuale è forse meno definita rispetto alla computer grafica – riconosce il direttore del laboratorio – ma, mentre guardando un video il cittadino è passivo, qui ha possibilità di esplorare la città, i progetti. Il cittadino, come il tecnico, può verificare la correttezza della rappresentazione a partire dai punti di riferimento che conosce: la propria abitazione, il quartiere. Cominciando da qui, inizia ad esplorare i progetti, gli scenari, i futuri possibili». Magari con la bici, appositamente realizzata per il collegamento al cluster, facendosi un giro per le strade di Torino 2020.

Attraverso la sua tecnologia, il laboratorio multidisciplinare LAQ-TIP si pone non solo come progettista di scenari futuri, ma anche come concreto supporto strumentale per i processi decisionali che porteranno, o meno, alla costruzione di nuovi spazi urbani.

www.laq-tip.polito.it

16 aprile 2008

Dove la tecnologia diventa etica

La tecnologia è la risposta, ma qual è la domanda? Il dilemma attribuito a Amory Lovins è il punto di partenza del primo corso di Computer Ethics dedicato ai futuri dottori di ricerca del Politecnico di Torino.

Un corso interdisciplinare fortemente voluto dal direttore della scuola di dottorato del Politecnico, il professor Mario Rossetti, il cui logo non a caso è rappresentato da una serie di ellissi che si intersecano in più punti. «Da troppo tempo chi viene da discipline scientifiche pensa che i prodotti tecnologici non siano influenzati dal contesto e non lo influenzino – spiega il docente del corso, il professor Norberto Patrignani – l’obbiettivo sarà quello di sensibilizzare i professionisti, gli utenti, chiunque si occupi di computer, sull’impatto sociale dell’informatica. La tecnologia non è amorale, né neutra, impone anch’essa scelte etiche».

Il percorso, iniziato lunedì 14 aprile, è interdisciplinare e aperto a tutti i dottorandi del politecnico, si svolgerà in lingua inglese per permettere la partecipazione anche agli studenti stranieri. I tredici argomenti del corso, suddiviso in due parti, una storico-metodologica e una di analisi di casi, toccheranno i maggiori problemi etici contemporanei.

Dall’eDemocracy, all’accessibilità e al divario digitale, tema che riguarda non solo banalmente l’accesso ad internet ma anche alla tecnologia stessa, si pensi ai paesi non industrializzati; dall’educazione, ai diritti d’autore e ai crimini informatici, passando per il problema dell’affidabilità. Tema cruciale quest’ultimo non tanto per i crash dei sistemi nei pc di casa, quanto piuttosto di quei luoghi, come gli ospedali, in cui si può mettere in gioco la vita. Passando ancora per l’intelligenza artificiale, robot maggiordomi da fantascienza, venduti anche a centomila dollari oltreoceano, porranno il problema di un’etica da "programmare" al loro interno, tema questo direttamente legato al rapporto tra tecnologia e guerra: «Dei robot guerrieri sono già in fase di sperimentazione», ricorda il docente. Infine il problema dei rifiuti che, tutto sommato secondo Patrignani, è il più esplorato: «Ci sono tre fasi per risolvere un problema socialmente importante: quella del dibattito che lo fa emergere, quella in cui le organizzazioni si danno linee guida e codici etici e la fase finale della legge. Nel caso dei rifiuti tecnologici siamo già alla normativa».

Deborah Johnson, filosofa docente alla Scuola di ingegneria e scienze applicate dell’Università di Virginia, è una delle pioniere della Computer Ethics, restando fedele a queste basi il corso organizzato dal Politecnico di Torino vuole essere un importante contributo alla formazione di persone in grado poi di dare una giusta valutazione delle implicazioni sociali ed etiche della tecnologia. Anche perché, conclude Patrignani, «le imprese chiedono professionalità più rotonde, non bastano più le competenze tecniche, serve anche una certa sensibilità».

Sette vite per un pc

Più di dieci anni con lo stesso pc? È possibile. Lo dimostra l’esperienza dell’Itis Majorana di Grugliasco, il cui laboratorio linguistico (foto in basso) funziona con dei Compaq Presario 5352, processore Celeron a 433 Mhz, 128 Mb di Ram e Windows 98 come sistema operativo. Per farsi un’idea: i desktop in commercio dalla fine del 2007 montano processori a 1,60Ghz di media e minimo 1 Gb di Ram, ovvero 10 volte tanto, mentre uno smartphone funziona con un processore a 624Mhz e almeno 128 Mb di Ram.

Nonostante questo il laboratorio linguistico del Majorana non si fa mancare nulla per quanto riguarda la didattica: i computer possono riprodurre dvd e cd-rom per lo studio delle lingue, hanno office, un programma di registrazione digitale e sono connessi in rete. Certo non hanno l’ultima versione dei sistemi operativi né i programmi più performanti, ma non cadere nella tentazione del consumismo informatico ha permesso all’Itis di Grugliasco di evitare il cambio periodico dei pc (con un risparmio stimato in circa ventimila euro in dieci anni) e i costi legati all’assistenza tecnica.

Tutto ciò è stato possibile grazie a dei componenti aggiuntivi a basso costo che hanno "congelato" la dotazione software (con programmi come Deep Freeze di Faronics) e impediscono inoltre qualsiasi operazione di scrittura sul disco rigido (come la Magic Card di Rogev o la Recovery Card di Incomedia). Così i pc si conservano come nuovi venendo ripristinati ad ogni avvio, parola di Dario Zucchini, responsabile tecnico dell’Itis.

Il Majorana di Grugliasco certamente non è l’unica scuola che si è posta il problema del riuso di pc obsoleti, né il metodo usato è valido per tutti i computer in tutte le situazioni. Il punto sta nel capire cosa significa "recuperare" e "riutilizzare" la tecnologia. In uno dei post del blog "Il doposcuola" (blog.dschola.it) Marco scrive: «Recuperare significa poter continuare ad usare in modo congruente con i propri obiettivi intellettuali, culturali, didattici, formativi, a prescindere da (oziose) questioni tecniche e senza dover dipendere da enti, procedure, certificazioni, validazioni, assistenze esterne».

Anche l’uso della tecnologia, insomma, deve diventare cosciente e responsabile, perché il problema non è solo economico, ma diventa anche ecologico. Per questo si diffondono sempre più associazioni e cooperative che si occupano del recupero di materiale informatico ancora funzionante o del suo smaltimento, come fa ad esempio la Cooperativa Sociale Arcobaleno di Torino con il progetto Transistor dedicato alle aziende.

E i Raee chi se li prende?

I rifiuti di apparecchiature elettriche ed elettroniche (Raee) si possono e, soprattutto, si devono smaltire. Da febbraio 2008 sono i produttori ad avere la responsabilità della raccolta e del trattamento dei rifiuti elettronici. Ma anche i compratori fanno la loro parte pagando, al momento dell’acquisto, un eco contributo.

Il 27 settembre 2007 proprio a Torino è stato costituito Apiraee, il consorzio nazionale delle piccole e medie imprese per lo smaltimento dei rifiuti elettronici. «La responsabilità del consorzio comincia nelle piazzole ecologiche dove aziende e privati possono lasciare i loro raee – spiega Gabriele Muzio, responsabile del servizio tecnico di Api Torino – I produttori consorziati si occupano del trasporto dei rifiuti dalle piazzole ai luoghi di stoccaggio e del successivo invio verso gli impianti di trattamento e recupero o di smaltimento finale». Per "produttori" si intende chi fabbrica l’apparecchiatura o la fa costruire per metterci il proprio marchio, o anche chi importa prodotti in Italia. Non sono considerati produttori invece quei commercianti che si limitano alla distribuzione, anche se dovrebbero avere l’onere di ritirare i rifiuti dei privati. «Su questo punto però la normativa non è ancora chiara – precisa Muzio – perché manca una copertura di legge per l’appropriamento dei rifiuti di terzi».

«La legge impone di incrementare la percentuale di recupero all’80% del peso medio per i grandi apparecchi e al 75% per le apparecchiature informatiche per le comunicazioni – spiega Muzio – ed è anche per questo motivo che nella normativa si parla molto di progettazione: per raggiungere gli obbiettivi richiesti i nuovi apparecchi dovranno essere progettati in base alla separabilità dei componenti e prevedendo l’uso di materiali che possano avere una seconda vita. Una presenza massiccia di materiali nocivi rende certamente difficile il recupero».

Il consorzio cerca quindi di fornire alle imprese uno strumento per rispondere ad obblighi onerosi che sarebbero difficilmente assolti, ad esempio, da piccole imprese a conduzione familiare. Secondo la normativa anche gli oneri di ricerca e innovazione sono tutti a carico delle imprese, per questo, attraverso il consorzio, si stanno tentando accordi con le università.

Per maggiori informazioni: www.centrodicoordinamentoraee.it

I rifiuti? Finiscono anche nel Terzo Mondo

Dove la legge non arriva e ogni vita umana non vale più del filo di rame che deve essere recuperato, si possono vedere bambini che attizzano fuochi per bruciare lo strato isolante che lo copre, o padri di famiglia che dividono il piombo fuso da circuiti stampati. Quei bambini respirano fumi saturi di diossina e metalli pesanti. Quella famiglia userà le stesse pentole usate per il piombo anche per cucinare. Quei fili di rame e quei circuiti stampati provengono dai paesi tecnologicamente avanzati.
Il ciclo dell’elettronica produce spazzatura, o e-waste, altamente pericolosa per l’ambiente. Non solo piombo ma anche cromo esavalente, mercurio, cadmio. Tutti elementi altamente tossici che non si dovrebbero liquidare con leggerezza.
La convenzione di Basilea, che ha imposto ai paesi sviluppati di notificare a quelli del Terzo Mondo qualsiasi spedizione di rifiuti potenzialmente pericolosi, è stata firmata nel 1989 da 170 stati. Si dimostrò troppo debole. Un emendamento del 1995 ha allora proibito del tutto l’esportazione dei rifiuti pericolosi.
Sette anni dopo, nel 2002, l’Unione Europea ha stabilito che devono essere i produttori a farsi carico dello smaltimento sicuro dei rifiuti elettronici. In Italia la norma è operativa dal 18 febbraio 2008.

(liberamente tratto da National Geographic, gennaio 2008)

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