Il fango come metafora dell’indifferenza, la camicia di forza come metafora della condizione umana. No. Non sono metafore quelle messe in scena da Gabriele Lavia, ma la realtà del suo teatro: «Il palcoscenico deve essere un sentiero storto e scosceso, il méthodos greco, un percorso per andare oltre». Lavia recita Il sogno di un uomo ridicolo di Dostoevskij da quando aveva 18 anni, ma ad ogni nuova rappresentazione sente il bisogno di rendersi la vita difficile; così la scena è stata a volte coperta di terra o fango, altre da piastrelle e sassi, corde d’acciaio, o si è trasformata nel cubo di una discoteca largo un metro e ottanta. La scenografia è una sciocchezza fondamentale: «Fango, sassi, corde, non servono a nulla, sono piccole tranquillità, piccoli make-up. Il problema vero è lo spazio scenico: costringere attori e spettatori ad essere “qui ed ora”, che non sono orologi e toponomastica, ma tempo e spazio». Il teatro si fa sempre sul palcoscenico, non è mai il teatro del regista, perché chi lo vede “guarda” ciò che accade, qui ed ora. Questo è il suo mistero.
pubblicato su Apart #4/07
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29 ottobre 2007
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